Non aveva l’aureola sulfurea del dio pagano come Diego Armando Maradona. E, per saltare all’attualità, neanche il carisma distaccato e un po’ arrogante di Cristiano Ronaldo. Caratterialmente era più accostabile alla ritrosia, contraddetta in campo dalle riserve inesauribili di fantasia, di Lionel Messi. O, rituffandoci di nuovo nel passato, al senso della misura di Pelè.
Ma il mito di Bobby Charlton, spentosi nei giorni scorsi a 86 anni nella sua Manchester dopo due anni di buio (demenza senile), non poggiava come avviene oggi anche sui fattori effimeri della mediaticità. Nacque e si sviluppò in tempi in cui contava più la sostanza dell’immagine.
Non c’è mai stato nella lunga vita del fuoriclasse inglese un capriccio fuori riga, una deviazione dalla sobrietà su cui oggi si sarebbero fiondati avidamente i social. Charlton nell’aspetto non incarnava le phisique du role del campione. Aveva una corporatura normale, un volto abbastanza comune e una precoce calvizie che anche in epoche molto meno sensibili alle fascinazioni del glamour mal si combinavano con il suo rango di leader e finanche di profeta. Fu, insieme a Valentino Mazzola e ad Alfredo Di Stefano, l’anticipatore del calciatore totale di cui più tardi sarebbe diventato emblema l’olandese Johan Crujff. Ubiquo: diga duttile davanti alla difesa, regista elegante a centrocampo, finalizzatore micidiale nell’area avversaria. Una mezzala camaleontica che sapeva fulmineamente trasformarsi in un finto nueve. Dotato di tecnica e di visione. Irresistibile negli strappi offensivi. Potente nel tiro e negli stacchi di testa. Appunto, un fuoriclasse.
La riservatezza naturale è stata per lui una bussola di equilibrio che non venne scossa neanche dall’evento più traumatico in cui possa imbattersi un essere umano. Charlton a 20 anni vide in faccia a morte. Il 6 febbraio 1958 il Manchester United incontra a Belgrado in Coppa dei Campioni la Stella Rossa. Finisce 3-3 con due gol di Bobby, astro nascente. Al ritorno l’aereo degli inglesi fa scalo a Monaco di Baviera per il rifornimento di carburante. Il tempo pessimo consiglierebbe una sosta più prolungata. Ma il pilota valuta che si possa ripartire. Il decollo abortisce, l’aereo non prende quota, urta contro la vegetazione e i palazzi circostanti e infine si abbatte al suolo. Muoiono in 23 fra cui otto calciatori, tre dirigenti e sette giornalisti al seguito. Si salvano in 11: fra cui lui, con qualche lieve ferita, insieme ad altri sei compagni di squadra. E’ una nuova Superga che decima una delle squadre più prestigiose del calcio inglese.
Bobby ne esce ovviamente a pezzi. Portandosi dietro il senso di sgomento e di smarrimento che si insinua in tutti i sopravvissuti alle grandi tragedie. “Non passa giorno”, ricorderà in uno dei rari momenti di confidenza, “che non mi capiti di rivedere i terribili attimi dello schianto e i volti degli amici che se ne sono andati”.
Da quel dramma nazionale parte la rinascita. Matt Busby, l’allenatore che porterà al trionfo il Manchester United negli anni Sessanta, assegna proprio a Bobby la guida di un vivaio che si sarebbe poi rivelato una fucina di grandi assi. Era stato proprio Busby a far firmare a Bobby (figlio di minatori, nato ad Ashington, piccolo centro dell’Inghilterra del Nord) il cartellino con il Manchester United quando aveva sedici anni. E a farlo esordire in prima squadra a diciannove. L’aveva notato in un torneo studentesco e individuato in lui le qualità del potenziale campione. Il football è sempre stato di casa nella famiglia Charlton. Cinque zii calciatori professionisti e Jackie, il fratello d due anni maggiore, avviato verso una carriera luminosissima (difensore pilastro del Leeds e della Nazionale inglese campione del mondo nel 1966 proprio al fianco di Bobby).
Il cammino della gloria è riassunto nei libri di statistica. Tre campionati vinti oltre a una Coppa di Inghilterra. Il titolo mondiale (nell’allora Coppa Rimet del 1966 in Inghilterra giocò tutte le partite e segnò tre gol) che gli valse l’onorificenza di Sir. Pallone d’oro ancora nel 1966. Coppa dei Campioni conquistata nel 1968 contro il Benfica (realizzò due gol). Quando lasciò il Manchester nel 1973 deteneva i record a lungo poi imbattuti delle presenze in campionato (758) e dei gol segnati (249).
Ma anche a 36 anni il campione che aveva vissuto due volte rimaneva troppi innamorato del pallone per ritirarsi. Prolungò il tramonto in squadre minori. E trascinò la sua fama negli ultimi scampoli di carriera fino in Australia. Tentò anche la strada dell’allenatore senza troppa fortuna. E rientrò quindi a casa, nel suo Manchester, come direttore del club per 39 anni. Un riconoscimento dovuto a una leggenda, Consacrata in una statua che campeggia davanti all’Old Trafford, lo stadio del Manchester United, che lo ritrae insieme a George Best e Denis Law. I tre componenti di un irresistibile trio d’attacco un cui Bobby incarnava la razionalità, gli altri due l’estro.
Ancor oggi Bobby Charlton ha un posto d’onore nel Pantheon del football mondale. Dodicesimo secondo la rivista World Soccer nella classifica dei calciatori più forti di sempre. Ed è sterile chiedersi che quotazioni avrebbe avuto nel calcio d’oggi in cui la tattica prevale sulla tecnica e la fisicità ha più valore di un dribbling. Un fuoriclasse del suo calibro rimane un valore assoluto a prescindere dall’evoluzione (o involuzione) degli stili di gioco.
Della sua vita privata si è sempre saputo molto poco. Appena che aveva una moglie e due figlie. Non amava esibire né vantarsi. È stato anche un simbolo di understatement. Di lui si ricorda solo una piccola vanità: il riporto per coprire la calvizie. E un dissidio mai sfociato in gossip con il fratello Jackie per beghe familiari dopo il loro ritiro. “Bobby”, disse un giorno il suo mentore Busby, “è vicino alla perfezione. Sia come calciatore che come uomo”.