Una enorme festa su scala globale, con il capoluogo campano ovviamente al centro delle operazioni: Napoli ha celebrato il terzo scudetto della sua storia e lo ha fatto con le migliaia di cittadini e appassionati napoletani sparsi per il mondo.
Dai trionfi del 1987 e del 1990, inevitabilmente griffati dal mito Diego Armando Maradona, a questo tricolore vissuto da dominatori, uno dei più meritati degli ultimi anni: non a caso, è arrivato con cinque giornate di anticipo col rischio che fossero anche di più. Il gruppo forgiato da Luciano Spalletti, il tecnico più anziano a vincere lo scudetto nella storia del calcio italiano con i suoi 64 anni, ha viaggiato a ritmi insostenibili per tutte le avversarie dirette: figuriamoci per quelle di quest’anno, con il gruppo dalla seconda alla settima (Lazio, Juventus – al netto delle penalizzazioni – Milan, Inter, Roma, Atalanta) che ha dato vita a una sorta di ciapanò che le vede tuttora coinvolte, a debita distanza, a lottare per i restanti posti Champions.
Competizione in cui ha regalato spettacolo anche il Napoli in questa stagione, travolgendo avversarie molto blasonate – citofonare Liverpool – e costruendo nelle notti di Coppa la sicurezza con cui poi ha devastato tutti in Serie A: in Champions la corsa degli azzurri si è fermata ai quarti di finale contro il Milan, con tanti rimpianti per infortuni e qualche scelleratezza arbitrale, mentre in campionato ormai la Spalletti-band poteva mettere la marcia in folle, visto il traguardo ormai imminente.
È il trionfo di Aurelio De Laurentiis, presidente che non ha certo avuto un rapporto splendido con i suoi tifosi e che spesso – anche in giorni di festa come questi – si lancia in qualche dichiarazione temeraria o borderline: va preso tutto il pacchetto e negli ultimi mesi De Laurentiis (uno che in passato è riuscito a “rompere” con un certo Carlo Ancelotti in modo roboante) sul piano gestionale non ha sbagliato un colpo. Ha confermato la fiducia a Luciano Spalletti, nonostante qualche frizione con la città dopo il terzo posto della passata stagione, e ha affidato in toto la parte tecnica al tecnico e a Cristiano Giuntoli, che lavora a Napoli dal 2015 – dopo le meraviglie di Carpi, paesino modenese portato in Serie A – conquistandosi passo dopo passo la fiducia di tutti.

E questo Napoli tricolore è figlio di Cristiano Giuntoli, che in estate ha saputo reggere alle cessioni di diversi big – da Insigne a Koulibaly, passando per Fabian Ruiz e Mertens – finendo di cesellare una creatura assemblata pezzo dopo pezzo negli anni. E se il nigeriano Victor Osimhen, bomberissimo della stagione, è stato un acquisto decisamente oneroso con cifre da big versate tre anni fa e una crescita esponenziale, tanti altri sono veri e propri colpi da scout di livello assoluto: su tutti, Kvicha Kvaratskhelia.
Il georgiano è stato una delle armi letali di questo Napoli, era noto a tanti nel mondo degli osservatori ma Giuntoli ci ha creduto più di ogni altro, andandoselo a prendere e mettendo negli ingranaggi napoletani un grimaldello capace di scardinare qualsiasi difesa con i suoi spunti degni del mito George Best. Il resto lo ha fatto il lavoro sull’attacco, dando a Osimhen (che a volte è stato davvero bersagliato dalla sfortuna) alternative vere come il “Cholito” Simeone o il talentuoso jolly Raspadori, per poi aggiungere l’altro pezzo da novanta in difesa trovando nel koreano Kim Min-Jae il tassello necessario per sostituire un leader del reparto come Koulibaly.
Un lavoro da direttore sportivo di altissimo livello, che l’opera quotidiana sul campo di Luciano Spalletti – più che mai a suo agio nell’allestire e far crescere un gruppo senza primedonne ma con tanti giocatori di talento in rampa di lancio – ha reso una corazzata capace di dominare la Serie A fin dal girone d’andata, lasciando poi con un palmo di naso i tanti che si aspettavano un calo (se non un crollo) nel girone di ritorno post-Mondiale in una stagione davvero anomala. Il Napoli ha dominato, ha meritato, ha fatto divertire tutti (avversari esclusi).
E mi piace spendere due parole per il suo capitano Giovanni Di Lorenzo: uno che ha partecipato da protagonista alla spedizione vincente dell’Italia a Euro2020 e che dal 2019, dopo l’arrivo da Empoli (club da cui i campani hanno pescato a piene mani, negli anni), si è preso la fascia destra del Napoli con solidità e abnegazione. Qui arriva la riflessione: che ci faceva due anni prima del suo passaggio al Napoli uno come GIovanni Di Lorenzo in Lega Pro (ora Serie C) a 24 anni compiuti?
C’è voluto l’occhio di un club sveglio in quel tipo di mercati come l’Empoli per portarlo in A e poi quello di un dirigente che non ha paura di effettuare questo tipo di scommesse come Giuntoli nel mettergli addosso la maglia del Napoli dopo solo un campionato in massima serie con i toscani. Ora quel ragazzo è il capitano dello scudetto: a suo modo, un monito nell’investire nello scouting, nel ricercare quel tipo di talento – che in Italia è sempre meno, vero Mancini? – nelle serie minori, nel credere nei ragazzi italiani di valore. E Napoli, ora, può fare quella festa messa in cantiere per ben 33 anni godendosi lo scudetto della competenza.
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