Hanno molti soldi e non hanno paura di usarli. I magnati dell’Arabia Saudita, dopo calcio, Formula 1 e tennis, hanno deciso di investire nel mondo del golf. E lo hanno fatto a modo loro, puntando a cancellare la concorrenza.
Per mettere nell’ombra il PGA Tour, l’organizzazione che cura i principali tour professionistici negli Stati Uniti, hanno iniziato ingaggiando come dirigenti alcuni dei nomi più noti del settore. Uno su tutti? Phil Mickelson: tra i migliori giocatori della sua generazione, che in bacheca vanta sei tornei Major.
Poi hanno iniziato ad attirare nelle rete stelle ancora più grandi e in attività, il cui talento sarebbe in grado di rendere la serie saudita una rivale credibile dell’attuale PGA Tour, che ha subito reagito.
Con una nota infuocata, il circuito statunitense ha sospeso 17 dei suoi giocatori, dichiarandoli “non più idonei a partecipare” agli eventi che per decenni hanno rappresentato il livello più alto del golf professionistico mondiale.
“Questi golfisti hanno fatto la loro scelta per motivi economici”, ha scritto il commissario del PGA Tour Jay Monahan. Ha poi avvertito altri professionisti tentati dalle offerte saudite che avrebbero subito le stesse punizioni e ha definito con sdegno “questo parlare di soldi, soldi e ancora soldi”.

Nell’iniziativa dell’Arabia Saudita c’è però qualcosa di diverso. Non è soltanto un mero esercizio di branding, ma il tassello di un piano strategico per modificare la percezione di sé, sia all’esterno che all’interno del Paese.
Questo tipo di investimenti ha subito una rapida accelerazione dal 2015, quando il principe ereditario Mohammed bin Salman ha iniziato la sua ascesa personale portando avanti una massiccia revisione per aprire l’economia e la cultura del regno. Grazie a lui, il nome dell’Arabia Saudita è comparso sempre più sulle pagine dei giornali, allontanando i ricordi dalle tragiche violazioni dei diritti umani, dallo stallo dell’intervento militare in Yemen o dall’omicidio da parte di agenti sauditi di Jamal Khashoggi nel 2018.
Ed è così che anche nel golf, l’Arabia Saudita si è affidata a una strategia collaudata: usare la sua ricchezza per arruolare, o meglio comprare, alcuni dei migliori giocatori del mondo.
Se è vero però che gli assegni a sei zeri fanno gola a molti, è altrettanto vero, come dice il detto, che non è tutto oro ciò che luccica. Il potenziale di successo del piano saudita è infatti tutt’altro che chiaro.
Nonostante la presenza di golfisti di alto profilo e il sostegno di grosse somme di denaro, la serie LIV Golf non è riuscita ad assicurarsi un accordo mediatico negli Stati Uniti e, per il momento, sarà trasmessa su servizi di streaming poco seguiti. Non è stata nemmeno in grado di attirare i principali sponsor di trasmissione come ESPN, CBS, NBC e Amazon, che sono al primo anno di un accordo di nove che li vede legati per centinaia di milioni di dollari al PGA Tour.

L’Arabia Saudita non è certo il primo Paese a usare lo sport come strumento per migliorare la propria immagine. I ricchi vicini del Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e soprattutto il Qatar, che quest’anno ospiterà la Coppa del Mondo di calcio, hanno investito molto nello sport internazionale negli ultimi due decenni.
Ma l’avventura dell’Arabia Saudita nel golf potrebbe essere lo sforzo più ambizioso mai compiuto da un Paese del Golfo per minare le strutture già esistenti di uno sport.
L’inizio è stato complicato. Ancora prima che venisse battuto il primo colpo, le LIV Series – finanziate dal fondo sovrano dell’Arabia Saudita – erano già un parafulmine per le polemiche. A febbraio, uno dei suoi più importanti ingaggi, Mickelson, ha suscitato indignazione quando ha elogiato la serie come “un’opportunità unica nella vita”, pur definendo “orribile” la situazione dell’Arabia Saudita in materia di diritti umani e usando un’imprecazione per descrivere i leader del Paese come “spaventosi”.
L’ennesima crepa di uno sport alle prese con problemi d’immagine di lunga data.