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Calcio e razzismo: decerebrati tifosi bianchi ma il vaccino per gli imbecilli non c’è

L’Italia non nega che il problema esista. Ma non lo combatte. Casomai lo discute e continuerà a farlo all’infinito se non si sbaraglierà il tavolo dall’equivoco

Stefano BiondibyStefano Biondi
Calcio e razzismo: decerebrati tifosi bianchi ma il vaccino per gli imbecilli non c’è

Mario Balotelli calcia il pallone contro i cori razzisti durante la partita Verona Brescia di due anni fa (Foto ANSA)

Time: 3 mins read

Non è bastato il trionfo di Marcell Jacobs alle Olimpiadi a indurre gli stupidi a tacere. Il verso della scimmia (bu bu bu) verso i calciatori neri è un problema del calcio italiano. Serio, certo. Lo sarebbe ancor di più se chi guida il carrozzone lo considerasse tale.

Già sei casi dei quali vergognarsi si sono registrati da inizio campionato. Gli ululati di alcuni decerebrati bianchi hanno avuto come obiettivo i milanisti Bakayoko e Kessie contro la Lazio e Maignan contro la Juventus; i napoletani Koulibaly, Osimhen e Anguissa contro la Fiorentina che a sua volta ha assistito alla discrimazione di Vlahovic (bianco, ma serbo e perciò, secondo gli imbecilli, ‘zingaro’).

In mezza Europa, succede da trent’anni,  si è scritto del problema ‘razzismo’ negli stadi italiani. E da trent’anni molti protagonisti del nostro sport nazionale tradiscono il loro misero stato d’animo. La risposta di Marco Materazzi a Liliam Thuram, vecchio campione e gentiluomo del calcio francese e internazionale, che non smette di denunciare il problema, è di quelle che ti fanno cadere le braccia. Questa: “Ma Thuram, quando negli stadi mi davano del figlio di … non è mai uscito dal campo per protesta”. Ecco: in tanti hanno pensato che se quella famosa testata nella finale di Berlino 2006 Zidane gliela avesse tirata in testa invece che sul petto, chissà, magari gli avrebbe messo a posto qualche ‘rotella’.

Povero lui, ma poveri anche noi. Sergio Pellissier, artefice massimo del miracolo Chievo (ora tornato tra i dilettanti), da giocatore che era, oggi fa il presidente della sua squadretta di quartiere e su Radio 1, scherzando (ma non ne siamo tanto sicuri) ha inneggiato a Mussolini.

Poi c’è la storia per nulla edificante di Claudio Gavillucci, arbitro che dalla serie A ha traslocato in Premier. Costretto a farlo, perché nel 2018, applicando il regolamento, sospese Samp-Napoli dopo ripetuti insulti razzisti a Koulibaly. Due settimane dopo è finito in tribunale contro la commissione arbitrale che lo aveva censurato.

E’ poi stato stabilito che gli arbitri non possono sospendere le partite per evitare disordini da parte del pubblico. Lo possono fare i questori e vien da sorridere pensando che tutti gli arbitri italiani dovrebbero scendere in campo con il cellulare, mettersi in rubrica il numero del questore della città dove stanno lavorando per poterlo chiamare ‘al volo’ casomai dagli spalti partisse un ‘buu’ di troppo.

L’Italia non nega che il problema esista. Ma non lo combatte. Casomai lo discute e continuerà, probabilmente, a farlo all’infinito se non si sbaraglierà il tavolo dall’equivoco che in troppi coltivano. La tendenza è quella di non chiamare questo orrendo fenomeno per quello che è, cioè razzismo, ma di catalogare chi insulta un nero o uno straniero come ‘maleducato’.

Nel 1958, come nel 2018, non ci qualificammo ai Mondiali, quelli di Svezia che videro l’esordio e la prima vittoria di Pelè (nero, pensa un po’). Fummo capaci di dare la colpa agli oriundi, cioè ai giocatori di origine italiana che venivano da altri paesi. E tenemmo chiuse la frontiere fino al 1980 godendoci (si fa per dire) un calcio tutto autarchico. E pensare che Salvini e Meloni non erano ancora nati.

Il problema è che dentro la nostra federazione le cose non vanno meglio. Ricordiamo tutti il tira e molla degli Azzurri che, chiamati alla solidarietà dal movimento Black Lives Matter, discutevano se fosse o meno il caso di inginocchiarsi alle vittime del razzismo prima di ogni partita. Si decise per il no e la spiegazione (ambigua) fu resa pubblica, è logico pensarlo, dal capo della comunicazione della Nazionale stessa, un tale (per pietà non facciamo il nome) che anni addietro sulla sue pagine social pubblicava messaggi contro gli albanesi, i rom e tutti gli immigrati.

Eh, ma si sa: il calcio è la calamita di tutti i difetti del Paese. Vero è che nelle altre discipline, vedi appunto l’atletica, le cose vanno un po’ meglio. Ma il presidente del Coni, Giovanni Malagò, di fronte al problema del razzismo ha avanzato la seguente obiezione: “E’ sbagliato se qualcuno fa buu a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna milioni di euro si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere rigore”.

Questo pensa l’autorità massima del nostro sport. Non c’è nulla da fare, purtroppo. Ha ragione chi dice che il razzismo in casa nostra è una malattia epidemica. Problema aggiuntivo: non arriverà nessun vaccino.

     

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Stefano Biondi

Stefano Biondi

Stefano Biondi è nato a Bologna nel 1958, ha lavorato dal 1979 fino al 1990 al “Corriere dello Sport-Stadio” prima di passare a Qn (Resto del Carlino) e lì rimanere fino al 2018, occupandosi di sport. Ha seguito soprattutto il calcio e il basket a grandi (ma anche piccoli) livelli. Collabora con emittenti tv e radio dell’Emilia Romagna.

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