Non ci bastava la finale di Wembley. Certo, per gli Azzurri è un traguardo prestigioso, è il segnale dell’avvenuto riscatto e della capacità che noi italiani abbiamo di essere i migliori, soprattutto se ci danno per spacciati o se ci trattano con sufficienza. Ma che nel calcio l’Italia sappia dire la sua, è cosa nota ai più. Esistono competizioni internazionali da 111 anni e quella che giochiamo domenica nel tempio di Londra è la decima finale: una ogni undici anni, una media discreta, sta lì a dire che gli avversari fanno bene a non dimenticarsi di noi.
Ci abbiamo preso gusto e abbiamo raddoppiato. Siamo andati in finali in un altro tempio, quello del tennis. E questa sì che è una grossa novità. A Wimbledon, nobile antenato di tutti gli Slam, si gioca da 144 anni e per la prima volta, qui e ora, abbiamo piazzato in finale uno dei nostri ragazzi. Lui è Matteo Berrettini, romano di 25 anni, uno che ha fatto la gavetta imparando dai suoi stessi errori e dalle sconfitte che gli hanno inflitto i big. Si è sbarazzato del polacco Hurkacz, un cognome che subito per noi è diventato un’esclamazione di gioia.
È il caso di dirlo: urca, che domenica ci attende. Speciale. Da primi della classe. Monopolizziamo quella degli inglesi appassionati di sport e teniamo incollati davanti alla tv chissà quanti milioni di persone. In qualunque direzione si girino, trovano l’Italia. Meglio: l’eccellenza italiana. Siamo vivi, siamo bravi e non solo li facciamo bere bene e mangiare meglio, li facciamo vestire in modo elegante e li inebriamo di arte. Adesso li facciamo pure divertire e un po’ anche tremare.

Soprattutto quelli che sognano di vedere di nuovo l’Inghilterra sul tetto dell’Europa calcistica. Si vantano di avere (insieme con la Scozia) la Nazionale più antica del mondo, ma sono fermi alla festa di quel Mondiale del ’66. Dopodiché, niente di niente, soltanto speranza e frustrazione.
Giocano di nuovo in casa loro come 55 anni fa e, in semifinale contro la Danimarca, hanno avuto nell’arbitro un alleato decisivo. A noi, che abbiamo vinto il Mondiale del 2006 in casa della Germania, importa poco. Diamo una scrollata di spalle e andiamo a Wembley tranquilli. Loro hanno in Saka, Foden e Grealish una generazione di fenomeni che impreziosisce la Premier League, il campionato più ricco e seguito al mondo. Ma noi, con i nostri illustri sconosciuti a livello mondiale (Pessina, Locatelli, Berardi) non abbiamo paura di nessuno: i ragazzi di Mancini hanno già dimostrato di saper vincere divertendo o soffrendo, insomma adattandosi come lo Zelig di Woody Allen a chi gli si para davanti. Ci modelliamo sulla necessità del momento e sono proprio la duttilità e l’estro, sempre presenti nel nostro bagaglio, che impediscono agli inglesi di dormire tranquilli.

Ci tengono tanto a questa vittoria. Non solo perché all’Europeo sarebbe la prima volta. Hanno voluto la Brexit e vorrebbero continuare a guardarci dall’alto in basso come hanno fato durante e dopo il referendum. Ma non li temiamo. Non sul campo. A livello politico è ovvio avere qualche perplessità. Boris Johnsson, che ha soffocato sul nascere la Superlega, impedendo l’adesione ai club di casa sua, si è così fatto amico tutti i dirigenti del calcio miliardario, dal presidente Uefa Aleksander Ceferin in giù. Ed è forte il sospetto che quel rigore-fantasma contro la Danimarca sia stato un ‘grazie’ della Federcalcio europea all’amico Boris.
Ma gli inglesi che aspettano la vittoria da tanto tempo farebbero bene a rispolverare quello che il loro (e nostro, certo) eroe Winston Churchill (che per un solo anno non vide il trionfo calcistico della sua Inghilterra) diceva a proposito degli italiani: “Fanno la guerra come se fosse una partita di calcio e giocano a calcio come se fosse una guerra”. Ecco: così i ‘padroni di casa’ sanno che cosa li aspetta.
Mario Draghi non va a Londra. Aveva chiesto che, per via della variante Delta che a Londra dilaga, si giocasse la finale a Roma. Neppure per idea: Boris ha risposto rilanciando che allo stadio di Wembley sarà sfruttata tutta la capienza. Una roba alla Orban, molto sovranista. E i rapporti (almeno quelli calcistici) con il nostro Premier si sono raffreddati.

Parte per Londra il presidente Sergio Mattarella, con la speranza di mettere nel suo album dei ricordi più divertenti momenti simili a quelli che Sandro Pertini visse a Spagna ’82 e Giorgio Napolitano a Germania 2006. Forse, è anche una questione di scaramanzia: Oscar Luigi Scalfaro non partì per vedere la finale di Pasadena (Usa’94) e l’Italia perse ai rigori.
Mattarella, l’Italiano più illustre, in compagnia di 6.500 italiani di stanza a Londra che possono entrare allo stadio senza finire prima in quarantena. Panico a Roma, dove il solito esercito di mogli, fidanzate, amici degli amici spera che arrivi una deroga da mille posti riservati agli azzurri. Le diplomazie sono al lavoro.
Che domenica bestiale, cantava Vecchioni. Alle 15 (italiane) Berrettini sfida Nole Djokovic sul centrale di Wimbledon e alle 21 l’Italia del calcio si gioca l’Europeo a pochi chilometri di distanza, dentro lo stadio di Wembley. Due monumenti allo sport: vorremmo andarcene dopo averli colorati tutti e due di azzurro.
Serve un’impresa? Meglio così: noi nella routine non siamo granché, ma nelle cose eccezionali abbiamo pochi rivali.
Londra si inchina agli italiani: il titolo è pronto, magari finisce davvero alle stampe. Se succede, amici inglesi, non date in escandescenze: il vecchio Winston vi aveva avvertito.