Fatta salva qualche rara eccezione, i presidenti di calcio sono matti. Matti veri. Gente che butta miliardi dalla finestra per il divertimento altrui e la loro personale sofferenza. Indebitati, contestati, pronti alla fuga sul pianeta Superlega, dove pare che la vita sia più complicata che su Marte, dagli errori personali e da quelli altrui non imparano mai nulla.
Quest’anno le spese folli per i calciatori sono impossibili, vietate dagli effetti della pandemia e dal disastro segnalato dai bilanci. E allora, perennemente a caccia di successo e di consenso, che cosa ti combinano i nostri miliardari in bolletta per accendere le luci su una ribalta che scricchiola da tutte le parti? Allestiscono la colossale caccia al nuovo allenatore, al santone che con un tocco di bacchetta magica trasformi i brocchi in buoni giocatori e quelli discreti in grandi campioni.
Una delle poche società che avrebbe tenuto il suo mago della panchina, sarebbe stata l’Inter campione d’Italia. Sfortuna nerazzurra: è stato Antonio Conte ad andarsene, perché il club non ha sufficienti risorse per rinforzarsi. Anche il Sassuolo avrebbe confermato volentieri Roberto De Zerbi, che ha preferito lo Shakhtar di Donetsk (Ucraina) dove ad attenderlo ci sono Champions League e milioni di euro.
Per forza succede che alcuni se la diano a gambe levate davanti alla contrazione delle spese: sono stati i presidenti a fargli credere che la follia non fosse eccezione ma norma né che avesse fine.

Poiché a vincere è sempre una sola (stavolta appunto l’Inter), così come una sola è di solito la rivelazione del campionato (il Sassuolo di Zerbi), tutti gli altri presidenti sono perplessi, quasi sempre sicuri che la squadra avrebbe fatto faville se ad allenarla fossero stati loro e non quell’incompetente dell’allenatore che magari ha giocato per quindici anni e per altrettanti ha allenato ma che, dal loro dilettantesco punto di vista, sbagliano sempre la formazione o le sostituzioni.
Solo il Milan del fondo Elliot (statunitense) aveva già rinnovato il contratto a Stefano Pioli, premiandone la professionalità e senza sapere se sarebbe andato in Champions, cosa che poi è avvenuta. Di solito, non conta l’equilibrio, non la tenacia, non la formazione di professionisti esemplari. No. I presidenti pensano che l’allenatore debba stupire, divertire, vincere e portare prestigio ai dirigenti. Per questo li ricoprono d’oro. Attraverso gli ingaggi milionari ai tecnici e staff al seguito (parliamo di una decina di persone, mediamente) si pagano la popolarità che loro, ricchi ma non tanto famosi da essere riconosciuti per strada, altrimenti mai avrebbero avuto.
A spiegare lo strano ‘fenomeno’ fu, tanti anni fa, Maurizio Zamparini, gran veterano delle presidenze calcistiche: “La molla che spinge noi presidenti a dilapidare patrimoni è una sola: la vanità”. Per la cronaca e per la storia: il Palermo di Zamparini è fallito da anni e stenta a risorgere.
In serie A giocano venti squadre. Quest’anno sono già cambiate le panchine dell’Inter, che ha ingaggiato Simone Inzaghi sottratto alla Lazio, il cui presidente (Claudio Lotito) sta facendo un vero e proprio casting per individuare il successore più adatto. Ha cambiato la Juve. Figuriamoci: cambiava anche quelli (Massimiliano Allegri e Maurizio Sarri) che avevano vinto lo scudetto con un filo di gas, figuriamoci l’esordiente Andrea Pirlo che è arrivato quarto per il rotto della cuffia. Due anni di pellicola bruciata, per rimandare sul grande schermo juventino un remake in bianco e nero: Max Allegri.

Ha cambiato la Roma: José Mourinho al posto di Paulo Fonseca. Che forza Josè: ha twittato un romanesco ‘Daje’ di incoraggiamento e da allora la metà degli italiani finisce qualunque conversazione con un ‘Mi raccomando, daje’. Ha cambiato il Napoli, che pure ha avuto in Gennaro Gattuso un allenatore apprezzato da tutti. Per metà campionato si è arrangiato senza i suoi due goleador infortunati (Osimhen e Mertens), ma non importa: non ha vinto e tanto basta per spedirlo altrove. Gattuso ha trovato subito casa, forse la migliore per lui, calabrese orgoglioso delle sue origini: è approdato a Firenze, alla corte di Commisso, un newyorker anch’egli di origini calabresi. Il ticket promette intesa e, per una volta, complicità tra allenatore e datore di lavoro. Per il suo Napoli, Aurelio De Laurentiis ha puntato sulla voglia di rivincita di Luciano Spalletti, un altro grande veterano, vincente più in Russia con lo Zenit di Pietroburgo che in Italia: torna a sedersi davanti alla roulette, stavolta italiana.

Hanno cambiato allenatore anche il Torino (via Nicola, tocca a Juric), la Sampdoria, che per il successore di Claudio Ranieri (quello del miracolo Leister in Premier) brancola nel buio e lo farà il Cagliari non appena avrà identificato il profilo giusto per il dopo Rolando Maran. Sistemandosi a Torino, il croato Ivan Juric ha lasciato vuota la panchina del Verona. In molti puntano quel Davide Dionigi che ha appena vinto il campionato di serie B con l’Empoli e ovviamente se ne va.
Fino a pochi giorni fa è stato in bilico anche Sinisa Mihajlovic a Bologna (poi confermato), mentre a Udine è ancora in attesa di giudizio Luca Gotti, che ha la ‘colpa’ di aver garantito ai friulani due salvezze tranquille.
E’ congelata (o chiusa: vedremo) l’era dei calciatori acquistati a cifre da capogiro, si è aperta la stagione degli allenatori che dovranno fare cene stellate con quello che passa l’orto del convento.

Chi rimane (in pochi) e chi va via (in molti), nessuno rischia di rimanere a lungo ai margini dello spettacolo. La panchina più prestigiosa del mondo è sempre quella del Real Madrid. In lizza per allenarlo ci sono due italiani: Antonio Conte fino a pochi giorni fa era il gran favorito, ma il presidente Florentino Pérez si è ricordato di un certo Carlo Ancelotti, che portò ai castigliani la decima Champions, e adesso è derby tra tecnici italiani per accomodarsi nello studio (tondo) della Casa Blanca.