Il 30 giugno 1984, Corrado Ferlaino portò a Napoli il giocatore più forte del mondo.
Vidi per la prima volta Diego Armando Maradona in quella stessa estate nel corso di un allenamento a Castel del Piano dove la squadra si allenava in ritiro.

I suoi palleggi con la gamba sinistra, – “la destra“- diceva -“mi serve soltanto per camminare“-, i gesti istintivi del campione e il suo talento innato generarono in me un’emozione che, a tutt’oggi, mi riesce impossibile descrivere.
Sicuramente la sua presenza nella squadra del Napoli accrebbe, in maniera esponenziale, non solo la mia passione per il calcio e il mio essere tifoso, ma quella di una intera generazione che si infiammava tutte le volte che scendeva in campo, che segnava o che, con grande generosità, creava formidabili occasioni di goal che, spesso, sfidavano anche le leggi della fisica.

Diego non è stato solo un giocatore del Napoli ma il leader indiscusso di un gruppo che sapeva condurre alla vittoria; una sorta di scugnizzo che si impone alla potenza economica delle società del Nord Italia; un campione unico ed un interprete straordinario della napoletanità che ha vissuto la sua esistenza in un’alternanza costante di luci ed ombre.
Persino nel mondiale del 1986 ed, in particolare, nella finale Inghilterra Argentina, Maradona capitano e giocatore della squadra Sudamericana, segnava il goal più famoso ed al tempo stesso irriverente della sua carriera e della storia del calcio: “la mano de Dios”.
Un giocatore ma anche e soprattutto un uomo che ha saputo esprimere al meglio le contraddizioni della città che non l’ha mai dimenticato e che ha tifato per lui anche in quel mondiale del 1986.
Napoli e Maradona non lasciano indifferenti: si amano o si odiano senza che si possa negare ad entrambi un tratto di infinita umanità.