Guardo fuori dalla finestra con il mio tè bollente tra le mani; temps de pluie, pennellate impressioniste. I colori brillanti del selciato ricordano, con un po’ di fantasia, la Parigi di Gustave Caillebotte. L’aria è frizzantina, finalmente si respira. A Imola, invece, ventiquattro anni fa il sole splendeva.
Era una domenica, la domenica del terzo gran premio della stagione, quello impropriamente chiamato San Marino, ma in territorio italiano. Il weekend era iniziato nel peggiore dei modi. Rubens Barrichello, giovane talento brasiliano poi approdato alla Ferrari, aveva perso il controllo della sua Jordan per un guasto alla sospensione posteriore sinistra, finendo in testacoda e cappottandosi in modo rocambolesco nel corso delle prove libere del venerdì. Ne era uscito miracolosamente illeso, spaventando non poco tecnici e tifosi. Sabato 30, invece, Roland Ratzenberger, pilota austriaco della meteora inglese Simtek, aveva rotto l’ala anteriore all’uscita del Tamburello e la sua monoposto si era schiantata a oltre trecento all’ora, ironia della sorte, contro i muri esterni intitolati a Villeneuve. Roland subì un trauma cranico che si rivelò fatale e morì poche ore dopo all’ospedale Maggiore di Bologna; aveva trentaquattro anni, come Senna.

La gara, nata maledetta, andava sospesa, ma Ratzenberger non morì in pista, per cui l’autodoromo non venne sequestrato per i rilievi. Un segno del destino? Ayrton era molto turbato. Doveva vincere a tutti i costi, ma gli incidenti dei giorni precedenti ne avevano minato l’entusiasmo. Pare, non lo sapremo mai, che scese in pista angosciato, con la mente affollata di pensieri. Nella sua monoposto avrebbero trovato una bandiera austriaca nascosta ai piedi dell’abitacolo, che Senna contava di poter sollevare al cielo in memoria dell’amico Roland in caso di podio.
Io avevo due anni e due mesi e guardai la corsa in braccio a papà, ferrarista incallito. Negli anni sarei diventata una supporter sfegatata degli eterni rivali della McLaren, un’onta per un’italiana. Non ho ricordi di quel giorno, ma so che papà mi lasciò a mamma e si stese a letto, tramortito. Uomo forte, quell’incidente lo commosse, come anni prima le morti insensate di Gilles Villeneuve a Zolder e Lorenzo Bandini a Montecarlo. Ayrton, si diceva, sarebbe presto entrato a far parte della scuderia Ferrari, a secco di vittorie dai tempi del sudafricano Jody Scheckter e in cerca del numero uno per risollevare il brand; Senna, ormai a fine carriera, voleva riportare il Cavallino rampante agli splendori di un tempo e chiudere la carriera nel team più amato di sempre. Due miti a scrivere la storia. Ed era genio puro e sregolatezza – poca, a dire il vero – bello come il sole, intrattabile: un eroe per tutti, anche per chi, come mio padre, non avrebbe mai ammesso di apprezzare il talento degli avversari per orgoglio di ferrarista.
Ad ogni modo, il gran premio di Imola comincia con un dramma, l’ennesimo in poche ore: da uno scontro ai blocchi di partenza partono frammenti di vettura sugli spalti, ferendo lievemente tre spettatori e provocando il coma di un quarto, più sfortunato. La safety car entra al primo giro, intralciando la corsa appena iniziata, e lascia la pista al quinto. Già al settimo Senna perde il controllo della vettura al Tamburello, sempre quel Tamburello maledetto, e impatta contro il muro.
La scelta di abbassare il volante, voluta dal pilota stesso e messa a punto dai tecnici della scuderia in poche ore, potrebbe essersi rivelata fatale, perché l’incidente pare fu causato dalla modifica del piantone dello sterzo che ne provocò il cedimento. Ma alla luce di questo amarcord, a che serve puntare il dito, a che serve cercare una causa, un responsabile a tutti i costi? Io non ho le competenze per esprimermi, posso solo supporre. Così volle il fato, così vollero gli dei. Ayrton non riprese mai conoscenza e morì come Roland al Maggiore di Bologna. Il Brasile e l’Italia, uniti nel cordoglio, dichiararono lutto nazionale. Il mondo delle corse aveva perso il suo enfant prodige nel modo più sciocco, per un capriccio del destino. La gara non venne interrotta, la vinse Michael Schumacher, giovane pilota della Benetton di Flavio Briatore. Due anni dopo, il tedesco sarebbe approdato alla Ferrari; il resto è storia.
Io, intanto diventata grande, vivevo nel mito di Mika Hakkinen, finlandesino dagli occhi di ghiaccio della McLaren, compagno di scuderia di David Coulthard. Ad Adelaide, un anno dopo la tragedia di Imola, un incidente lo mandò in coma. Avevo tre anni, ma di quei momenti ricordo tutto. Amavo la Formula 1, ma vivevo ogni corsa con il cuore in gola. Quando Alex Zanardi venne travolto in pieno dalla monoposto di Alex Tagliani che gli mozzò le gambe di netto avevo nove anni. Non riuscii più a guardare le gare con la stessa serenità.
Io e la Formula 1 abbiamo ben poco da dirci adesso, ma certi amori non finiscono e oggi è il giorno di Ayrton, lo sarà per sempre. Il mio tè si è raffreddato, devo andare; a Baku, ieri, il nuovo circuito cittadino che Michael Schumacher non ha mai visto, Max Verstappen ha combinato un bel guaio con la sua nota irruenza, e la Ferrari ha perso la gara. Papà è arrabbiato, io sorrido. Non sono ferrarista, ma da italiana segretamente faccio sempre il tifo per il rosso più bello che c’è. Se quel volante non avesse ceduto? Se quella vettura fosse rimasta in pista? Se Senna fosse qui? Quanti se, quante supposizioni. Ma la vita è così e gli eroi sono sempre giovani e belli, come gli eterni ragazzi del grande Torino.
Manuel Fangio ironicamente diceva bella gara, non è morto nessuno. Jules Bianchi è stato l’ultima vittima di questo sport folle e per folli. Senza sogni non è vita, sognare è fondamentale, ripeteva Ayrton. Ed è morto come avrebbe voluto, facendo quello che amava. A te, Ayrton. Niente poteva separarti dall’amore di Dio, recita il tuo epitaffio. E a Dio sei tornato troppo presto, lasciando un vuoto incolmabile. Per sempre tua, Isabella.