Che palle. La Juventus ha vinto per la sesta volta consecutiva lo scudetto e in Germania il Bayern ha vinto per la quinta volta consecutiva la Bundesliga. Negli ultimi dodici anni in Spagna la Liga l’hanno sempre vinta, con una sola eccezione, il Barcellona e il Real Madrid; in Inghilterra dalla istituzione della Premier League, e cioè in venticinque campionati, quattro squadre hanno vinto ventitré titoli (e il Manchester United 13 di essi), tutte le altre, complessivamente, solo due. A prevalere sono insomma pochissimi club, e non perché siano i migliori; vincono perché hanno più soldi, solo perché hanno più soldi. Poi usano le vittorie e i media per fare ancora più soldi e dunque vincere di nuovo. Così pian piano la gente si convince che i vincenti siano meritevoli e che avere tanto denaro non sia un’ingiustizia ma un indice di successo e sostanzialmente una virtù.
È l’ideologia del liberismo globalista, la meritocrazia del denaro, oggi trionfante pur avendo irrimediabilmente consumato in pochissimi anni risorse naturali accumulate in milioni di anni e un patrimonio culturale e sociale faticosamente messo insieme in secoli di civiltà; principi morali, tradizioni, valori, sono stati spazzati via: chi ha più soldi è un vincente, dunque un eroe o un dio, dunque meritevole di privilegi e celebrità, e chi non accetta il suo dominio è un rosicone, un invidioso, un fallito. Così hanno potuto imporsi, in barba a qualsiasi norma antitrust, multinazionali più ricche e potenti degli Stati, tipo Apple, Microsoft, Amazon, Exxon, Volkswagen, che usano la retorica del libero mercato per stroncare e inglobare le piccole e medie imprese ma poi instaurano veri monopoli planetari, al di sopra della legge e che non rispondono a nessun governo. È anche il modello politico del liberismo, che antidemocraticamente costringe gli elettori a decidere fra un paio di partiti, i meglio sovvenzionati dalle corporation, ignorando sistematicamente con la scusa della governabilità quella parte della popolazione che in realtà preferirebbe altro e condannandola a non avere mai rappresentanza, mai una voce.
Il calcio totalmente commercializzato degli ultimi decenni, il calcio degli stadi semivuoti e dei canali a pagamento, giocato da mercenari milionari e controllato da speculatori miliardari, il calcio della pubblicità e dei tatuaggi, serve al potere per educare i popoli alla meritocrazia del denaro e della celebrità. In Italia, Germania, Spagna e Inghilterra la netta maggioranza degli appassionati non tifa per Juventus, Bayern, Real Madrid o Chelsea. La maggioranza tifa per squadre che non vincono mai. Chissà perché si rassegna, chissà perché non si ribella a un sistema palesemente iniquo e creato dai ricchi per favorire sé stessi. Chissà perché considera giusto che chi ha più soldi meriti di vincere. In fondo basterebbe che la gente smettesse di guardare le partite, anche in TV, se non c’è vera competizione e se i protagonisti sono sempre gli stessi; basterebbe che le altre squadre si rifiutassero di giocare con chi vince più di due titoli di seguito, basterebbero regole che dessero alle squadre più deboli la precedenza nella scelta dei migliori giocatori (come per esempio in America con i draft dell’NBA e dell’NFL), basterebbe costringere i club a fare contratti di ingaggio decennali e non revocabili (e chissenefrega dalla libertà dei calciatori di guadagnare ancora di più altrove), basterebbero drastici tetti agli stipendi e alle spese.
Vi paiono punizioni per aver vinto? Ma certo che lo sono. Perché nello sport come nella vita civile lo scopo della società dovrebbe essere l’attenuazione delle ineguaglianze, incluse quelle biologiche, economiche o fortuite, non il loro rafforzamento. So bene, sappiamo tutti bene, che ci sono individui divorati dall’ambizione e dall’avidità, personaggi egocentrici che pur avendo tanto vogliono ancora di più, vogliono tutto, forse per via di un difetto genetico, forse caratteriale, incuranti delle sofferenze che provocano, degli abusi che commettono, dei danni che causano alla collettività; purtroppo non usa più invocare per loro la ghigliottina o almeno la Siberia, o magari visti i risultati è bene non farlo; ma almeno creare meccanismi che ostacolino la loro compulsiva volontà di potere, questo potremmo farlo, costringendo chi ha avuto successo ad accontentarsi e farsi da parte, lasciando che siano altri ad avere a loro volta un’occasione di affermazione e felicità.