Da ventotto anni racconta agli italiani lo sport americano. E lo fa con la passione dello sportivo e la scrittura giornalistica di chi vuol fare vivere le emozioni di uno sport.
Massimo Lopes Pegna, fiorentino, approda alla Gazzetta dello Sport nel 1988 per poi diventare corrispondente dal 1991. Da allora ad oggi, regala ai lettori storie umane e sportive nella carta stampata come nel suo blog.
Una passione, quella per il giornalismo, coltivata sin da ragazzino: nei pomeriggi trascorsi a Radio Firenze 2000 dove allora lavorava anche Carlo Conti, suo compagno di scuola, come dj; nel giornale Calcio Più fondato insieme al fratello Ruben e ad altri due amici. Una passione che prende il sopravvento e che non riesce ad essere solo hobby.
Dopo sette anni, Massimo abbandona la scrivania dell’Ufficio Bilancio della Fondiaria di Firenze e decide di volare oltreoceano. Inizia la sua avventura americana, all’inizio non facile. Vede le luci di Manhattan dal suo appartamento di Brooklyn, per poi prendere a morsi la Grande Mela.
Massimo ci racconta di come è cambiato il giornalismo dagli anni Ottanta ad oggi, degli incontri importanti nella sua carriera e della lezione di vita che lo sport insegna.
Massimo come inizia la tua avventura negli Stati Uniti?
“Inizia nel 1986, a Denver, in Colorado, dove studiavo inglese e lavoravo in un ristorante per sbarcare il lunario. Per poi arrivare a Chicago e lavorare in un negozio di dischi. Non volevo tornare indietro e approdai a New York, nel 1987. Feci un concorso alle Nazioni Unite come guida turistica ma non superai la terza prova. Subito però mi si presentò un’altra occasione. Cominciai a lavorare a Radio Uno, diretta e fondata da Mario Sessa; mi occupavo di sport, giornale radio, musica. Nel 1988 conosco Rino Tommasi de La Gazzetta dello Sport e gli chiedo se stavano cercando un corrrispondente da New York . Mando il mio curriculum al direttore e compianto Candido Cannavò. Inizia così la mia avventura come collaboratore. Era il 1988 e in quell’anno l’America ottiene il Mondiale del 1994 e nel 1990 le Olimpiadi ad Atlanta del 1996. I giornali italiani avevano bisogno di corrispondenti che raccontassero lo sport americano”.
Nel posto giusto al momento giusto
“Allora vivevo a Brooklyn, guardavo le luci di Manhattan da lontano. Lavoravo tantissimo. Per la Gazzetta dello Sport sono riuscito a pubblicare uno scoop: le foto di Nadia Comaneci che aveva appena lasciato il suo paese. Riuscii ad intervistare anche Mark Spitz. Questi due risultati portano a rivedere la mia posizione per la Gazzetta dello Sport. Mi chiamò il direttore Candido Cannavò per annunciarmi che dal 1991 sarei diventato ufficialmente il corrispondente per gli Stati Uniti. Da allora la mia vita cambiò. Da Brooklyn mi trasferii a Manhattan e cominciai a viaggiare e seguire tutti gli eventi sportivi, le conferenze e la vita della Grande Mela. Da allora fino ad oggi. Ci vuole un pizzico di fortuna, sempre. Ma la fortuna arriva sempre se tu non stai fermo e sei determinato. Talento e determinazione. Come ci insegna lo sport”.
Come è cambiato il giornalismo sportivo da allora?
“Drasticamente. Internet semplifica di certo le cose. Prima dovevi chiamare l’ufficio NBA per farti dettare le statistiche, andare negli archivi a cercare materiale. Oggi trovi tutto sul web in tempo reale. È cambiata anche la scrittura giornalistica. Non conta più raccontare un pezzo come fatto di cronaca perché quello lo leggiamo ovunque e su internet. E’ il modo di raccontare una storia quello che permette di fare la differenza in termini di qualità giornalistica. È questa la sfida a cui è chiamata la carta stampata per sopravvivere alla crisi che nasce dalla concorrenza con il web. In quest’ultimo, si punta molto al tempismo, mentre quotidiani cartacei e settimanali devono puntare alla qualità”.

Il giornalismo sportivo americano in che cosa è diverso da quello italiano?
“Questo è un giornalismo anglosassone dove conta molto raccontare, costruire una storia partendo da un virgolettato. Ho sempre apprezzato la grande professionalità dei colleghi inglesi e americani”.
Che cosa ama l’Italia dello sport americano?
“Il grande spettacolo e le grandi storie umane che lo sport americano ci regala quotidianamente”.
Finalmente anche l’America si accorge del calcio che sta diventando sempre più popolare negli Stati Uniti. Perché si è dovuto aspettare tutto questo tempo?
“Se prima il calcio era considerato soltanto come lo sport degli emigrati, già quindici o venti anni fa, i ragazzini americani cominciarono a giocarlo trasformandosi oggi in tifosi.
Dal 1996 esiste la Major League soccer che oggi conta in media 20-22.000 persone a partita e che sta diventando popolare in Italia grazie alla presenza di Andrea Pirlo e di Sebastian Giovinco”.
Hai incontrato, intervistato molti famosi giocatori, atleti, sportivi. Quali sono le grandi storie alle quali sei particolarmente affezionato?
“Ho seguito tutta l’era di Michael Jordan ed è stata una bellissima esperienza. Lui è stato un grande giocatore, un grande professionista, una stella sul campo ma anche molto una persona molto umana. È stato bellissimo anche essere presente all’annuncio di Kobe Bryant sul suo ritiro dalla carriera sportiva quando ha ringraziato, commuovendosi, tutti i giornalisti per aver scritto di lui grandi cose”.

Sei a New York da tanti anni e ritorni spesso in Italia. Come era la città allora e come vivi il tuo rapporto con il tuo paese?
“New York era sempre bella è affascinante come lo è oggi. Forse meno sicura. Di sicuro è sempre una città dove incontri persone interessanti, straordinarie e dove tutto quello che fai, in qualsiasi campo, se lo fai qui sei al top. Io, nonostante viva qui da molti anni, mi sento molto italiano, europeo”.
Che ruolo assegni al giornalismo?
“Quella di raccontare belle storie in modo unico. La bellezza di questo lavoro è che se ad un evento ci sono otto giornalisti, ognuno di loro tira fuori storie diverse”.
Cosa fa di un articolo sportivo, un gran bell’articolo?
“La capacità di farti vivere le emozioni, i dettagli. Se internet, la televisione, ci mostrano le immagini di una partita, chi scrive di sport deve saper raccontare e far vivere quelle emozioni attraverso le parole”.
La lezione di vita che ti ha insegnato lo sport?
“Dare sempre il meglio a prescindere dal risultato. Tenacia e determinazione”.
Trovate Massimo Lopes Pegna su Twitter.