L’ottava edizione della Coppa del Mondo di Rugby apertasi il 18 settembre scorso con l’incontro Inghilterra – Figi, è consegnata alla Storia.
Lo è stata sabato sera nello stadio di Twickenham, a Londra, nel West End; nello stadio dove sono affluite ottantamila persone entusiaste, corrette, animate da un eloquente spirito sportivo, pronte ad applaudire con trasporto i vincitori, pronte a salutare con sentimento e partecipazione gli sconfitti.
La Storia del Rugby è stata arricchita dalla vittoria della Nuova Zelanda (i celeberrimi All Blacks) sull’Australia, sui “Wallabies”; la rivalità fra le due nazioni è antica, è plurisecolare. Nella “”battaglia”” londinese, i campioni del mondo uscenti hanno realizzato tre mete (con due calci di trasformazione), quattro calci di punizione e un drop contro le due mete (entrambe trasformate) e una punizione degli australiani.
E’ stata la finalissima che ha riconfermato nel Rugby la genuina signorilità dei vincitori nei confronti degli sconfitti, degli avversari mai domi, sempre tenaci, brillanti anche sul piano tecnico. Questa, care lettrici, cari lettori, non è oleografia; questa è cronaca, è verità, è oggettività: dopo nemmeno un minuto dalla fine della partita, l’allenatore neozelandese Steve Hansen (aria da maestro o professore di liceo) è sceso in campo e, prima ancora di gettare le braccia intorno ai suoi uomini protagonisti di una nuova, grande impresa, ha passato con umiltà in rassegna i giocatori australiani e a ognuno di essi ha stretto con calore la mano, per ognuno di essi ha avuto parole di autentico conforto; a essi s’è rivolto come se fosse stato lui il loro allenatore, il loro capo, la guida d’una sfortunata “campagna”. S’è comportato allo stesso modo l’impeccabile arbitro, il gallese Nigel Owens, un altro “gentleman” nel vero senso del termine. Momenti, sì toccanti; momenti di grosso pathos una volta terminata la “guerra”, la “guerra totale” che per ottanta minuti aveva impegnato due compagini, due nazioni, due popoli: gli australiani eclettici, scanzonati, spavaldi, assai loquaci e comunicativi; e i neozelandesi ben più riservati, un po’ severi, dall’aria, dallo stile “old-fashioned”. Gli australiani “solari”, i neozelandesi “crepuscolari”. I “Wallabies” che adorano il Sole che li inonda per gran parte dell’anno; i “Kiwis” amanti, invece, della penombra; della penombra, della nebbia da cui lasciarsi avvolgere nella ricerca della sintonia con se stessi.
Dopo meno di 50 minuti di gioco, gli All Blacks, i campioni del mondo uscenti, sono in vantaggio per 21 a 3 in virtù di due mete (segnate con l’arioso, spettacoloso gioco al largo, sulle ali) e tre punizioni contro il calcio di punizione australiano. Ma l’Australia reagisce, reagisce con orgoglio e con brillantezza di gioco, fino a portarsi con due mete (anch’esse realizzate col gioco aperto) e altrettanti calci di trasformazione sul punteggio di 17 a 21. Ci si aspetta allora l’ulteriore accelerazione “wallabie” e invece arriva la veemente, ma elegante replica kiwi: Daniel Carter, tenebroso mediano d’apertura, faccia da divo del Cinema anni Venti o Trenta, mette a segno con eccelsa coordinazione di movimento un drop (il dropped-goal) dalla bellezza di 55 metri di distanza, e così gli All Blacks raggiungono quota 24, prima di chiudere vittoriosamente con un altro calcio di punizione e una terza meta trasformata. Da notare che il drop va eseguito con un tiro di controbalzo, qui sta la difficoltà, qui risiede la prodezza, il “gioiello” tecnico ed “estetico”: insomma, prima d’essere calciato verso la porta, il pallone deve picchiare sul terreno di gioco; un calcio diretto sarebbe “troppo” facile: nel Rugby si cerca sempre il “difficile”… Così è!
Il Mondiale terminato sabato sera nel gentile fragore di Twickenham, è stato il Mondiale della finale per il terzo e quarto posto giocata venerdì sera, sempre a Londra, da Argentina e Sudafrica; contesa vinta dagli “Springboks” per 24 a 13 contro i “Pumas” che mai si sono arresi, mai hanno abbassato la testa, fino a irrompere in meta a un minuto dalla fine col pacchetto di mischia nel nuovo, supremo, commovente sforzo collettivo.
Il Mondiale 2015 è stato il torneo del Giappone capace di piegare la “corazzata” Sudafrica alle prime battute della grande rassegna; sconfitto poi, e in modo pesante, dalla Scozia, ma dominatore di Samoa e Stati Uniti. E’ stato il meritato palcoscenico dei dilettanti uruguagi i quali con bellissimo stile e coraggio ugualmente notevolde hanno affrontato in un girone davvero di ferro Inghilterra, Australia, Galles, Figi.
E’ stato teatro del ‘Disastro-Francia’, dell’umiliazione, senza precedenti del rugby ‘gallico’, del rugby del “Midi”, glorioso, fiammeggiante, assai tecnico. Teatro della polverizzazione dei francesi a opera degli All Blacks: nove mete a una per i neozelandesi. Ma una ragione c’è… Ormai sono numerosissimi i giocatori stranieri (inglesi, scozzesi, sudafricani, australiani, samoani, figiani) i quali militano in club della massima serie francese: così non è più possibile ricorrere ai ‘blocchi’, ai vecchi ‘blocchi’ garanzia di successo. Non esistono infatti più i ‘blocchi’ Tolosa-Biarritz o Pau-Agen-Lourdes. Basti pensare che nel Tolone, compagine ai vertici internazionali da almeno tre anni, i giocatori francesi si contano sulla dita d’una mano… Ma non perché i francesi dispongano di ben poche qualità; bensì perché al Tolone (e anche altrove in Francia) vanno di moda i sudafricani, gli inglesi, i polinesiani.
Teatro dell’ennesima delusione azzurra… D’una Nazionale che per smaccato difetto federale e tecnico, ha affrontato anche questi Mondiali col solo “impegno” di vincere due partite due, contro avversari per nulla irresistibili, come in questo caso Romania e Canada (superate comunque a fatica…). Ma non si raggiungono i quarti di finale con due sole vittorie: il Giappone è uscito nella prima fase pur avendo vinto ben tre incontri!
Neanche noi possiamo più contare sui ‘blocchi’, vista la diffusissima presenza di giocatori stranieri nella nostra massima serie: argentini, inglesi, neozelandesi, polinesiani (con rispetto parlando) di terz’ordine. Ma il dannato, autolesionistico ‘trend’ questo è…
La cura, la soluzione, tuttavia ci sarebbero: puntare sulla Under 21 azzurra, puntare su giocatori italiani, su giovani di grosso talento: siciliani, campani, romani, abruzzesi, toscani, liguri, emiliani, veneti. Ma di speranze, poche ne abbiamo… Un’esterofilia assassina, provinciale, ci condanna.
Questo Mondiale è stato “anche” il Mondiale in cui s’è dimostrata l’inattaccabilità dello spirito, dello stile del Rugby di fronte al consolidamento del professionismo. Una sola macchia, a riguardo: noi tutti abbiamo il diritto di sapere se il Capitano della Nazionale italiana Sergio Parisse ha saltato incontri del Mondiale a causa di banditesche pressioni del suo club, lo Stade Français, “preoccupato” per le condizioni fisico-atletiche del nostro campione.
Il Mondiale 2015, al di là delle imprese compiute dalle potenze neozelandese, australiana, sudafricana, argentina, al Rugby ha recato grandi servigi: quelli offerti appunto dal Giappone, dall’Uruguay, dalla Namibia (autrice d’una splendida meta contro gli “”dei”” neozelandesi), dalla Georgia, dagli Stati Uniti stessi, battutisi con bel piglio, con audacia, con fierezza, e anche con un certo acume tecnico.