Ha una sua maestosità; un suo ben preciso carattere, un’anima subito apparsa in tutta la sua lucentezza, in tutta la forza del misterioso incoraggiamento lanciato ai “meno forti”, indirizzato agli “underdogs”, vale a dire a quelli che versano sudore e sputano sangue “soltanto” per salvare in ottanta “apocalittici” minuti il proprio onore, poiché speranze di battere le Grandi Potenze (Nuova Zelanda, gli All Blacks; Australia, Sudafrica, Francia, Inghilterra, Galles, Irlanda) non ve ne sono; non possono essercene…
E’ la Coppa del Mondo di Rugby, giunta alla sua ottava edizione e apertasi venerdì 17 settembre nello stadio di Twickenham, a Londra, con l’incontro fra Inghilterra e Fiji, 35 a 11 per gli inglesi in una gara giocata a ritmi assai sostenuti. E’ la Coppa del Mondo che nella ultracentenaria Storia del Rugby domenica scorsa, a Brighton, ha scritto una pagina il cui contenuto travalica la ‘semplice’ dimensione tecnica del Rugby e offre temi di elevato significato, di significato anche poetico poiché nella sua asprezza il Rugby è ‘anche’ poesia, è sentimento: non potrebbe essere altrimenti. E’ la pagina i cui protagonisti sono le compagini nazionali di Giappone e Sudafrica, di due Paesi, di due mondi alquanto diversi.
Si diceva poco fa di “speranze”, speranze “impossibili” vista la netta superiorità tecnica d’una formazione sull’altra. A Brighton domenica sono scesi in campo i sudafricani campioni del mondo nel 1995 e nel 2007 e i rappresentanti d’un Giappone che nella Coppa del Mondo del 1995 in Sudafrica fu polverizzato (145 a 0…) dagli All Blacks. Ma a Brighton l’altro giorno è stato il Giappone a trionfare, è stato il Giappone a infliggere una umiliante sconfitta al Paese in cui il Rugby è da ben oltre cent’anni una “religione”. ‘Clamoroso’, sissignori; memorabile. Frutto del caso, forse? Per nulla. I giapponesi hanno segnato tante mete quanto gli “Springboks”, quattro; hanno prevalso sulla differenza d’un calcio di punizione, ma la loro ultima meta, costruita con la partecipazione, con la spinta, con cambi repentini di direzione da parte di dieci-undici giocatori, è arrivata all’ultimo minuto. Sudafrica travolto, schiacciato “in trincea”. Grandioso.
I giapponesi a Brighton hanno riproposto loro antichi valori: la disciplina, l’opera corale, l’amore per l’apprendimento, per il miglioramento personale, la fiducia verso coloro i quali sono votati alla stessa causa. Ora che i nipponici hanno ben imparato il gioco, le arti del Rugby, ecco che hanno messo fuori combattimento nientedimeno che il Sudafrica. Certo che il Sol Levante perderà partite in futuro, anche le squadre di maggior classe e di maggior potenza perdono incontri. Ma da domenica 19 settembre 2015, il Giappone è egli stesso, sì, una potenza mondiale del Rugby. Già familiari in mezzo mondo nomi di loro giocatori che hanno giganteggiato nel confronto con gli “Springboks”, e dei quali sentiremo di sicuro parlare parecchio: Tanaka, Yamada, Ono, Sau, Matsushima. Onore a tutti loro e onore ai sudafricani che al termine della “battaglia” di Brighton hanno stretto la mano ai loro avversari, hanno abbracciato spontaneamente i vincitori.
E’ la Coppa del Mondo che ci ha presentato una Georgia inquadrata in modo un bel po’ ‘militaresco’, battere con limpidezza la compagine di Tonga (17 a 10), i ‘guerrieri’ del Pacifico, esponenti di una antica tradizione rugbistica. Negli 80 minuti di gioco, la formazione caucasica non ha perso una sola volta l’iniziativa.
Sissignori, è la Coppa del Mondo che sabato ha visto il Canada crollare sotto gli urti e dinanzi all’estro e all’immaginazione dell’Irlanda, altra grande potenza della pallaovale, 50 a 7 per gli irlandesi. Ma è anche la rassegna mondiale che ci ha permesso di ammirare il carattere, la tempa, l’orgoglio della nazionale degli Stati Uniti d’America, la nazionale d’un Paese in cui ottanta o novanta persone su cento non hanno una benchè minima idea del Rugby, dello sport “oscurato” da Football Americano, Baseball, Basketball, Ice Hockey. Opposti a un’altra squadra del Pacifico, Samoa (le Isole Samoa), anch’essa dall’illustre passato, gli americani hanno perso con soli nove punti di scarto (16 a 25), hanno realizzato una pregevolissima meta in gioco aperto, la “cavalleria” lanciata contro il “nemico” e ci hanno fatto conoscere due giocatori eccellenti: l’ala sinistra, e Capitano, Chris Wyles e il mediano d’apertura Allan McGinty. Superati, sì, gli statunitensi, ma non certo surclassati; al contrario.
E’ la Coppa del Mondo in cui, domenica sera, a Londra, nel ‘match’ coi campioni del mondo uscenti, gli All Blacks, l’Argentina ha chiuso il primo tempo in vantaggio, 13 a 12; ha ceduto poi per 16 a 26, ma a lunghi tratti ha sfoderato un gioco tanto elegante quanto incisivo.
E’ la manifestazione agonistica seguita via tv in decine e decine di Paesi e nella quale, a Cardiff, domenica, il “minuscolo”, ma combattivo, generoso Uruguay ha perso 55 a 9 con gli “”dei”” del Galles, ma è andato in vantaggio per primo e non ha mollato per un solo istante. Commovente.
E’ il torneo, il grande torneo in cui si è rivista un’Italia che ha smarrito la buona, anzi, brillante forma esibita nel “Sei Nazioni” del 2013 con nette vittorie su Francia e Irlanda. L’Italia del soprassalto vincente con la Scozia a Edimburgo nel “Sei Nazioni” di quest’anno, ma dopo il quale sussulto, la compagine è di nuovo apparsa senza un’identità, senza una direzione; come spaesata, incerta. C’entra l’allenatore, il francese Jacques Brunel, bellissime le sue credenziali, superlativo il suo ‘curriculum’? Fino a un certo punto. Il problema è ben più grave: ci se n’è resi maggiormente conto domenica scorsa, a Londra, nella disfatta (10 a 32) riportata contro un Francia nemmeno poi tanto superlativa. Contro i vice-campioni del mondo uscenti, gli Azzurri sono mancati in modo più mortificante che mai sul piano della concentrazione, della lucidità mentale. Nulla di esplosivo nella loro corsa, nulla di brillante nelle manovre d’attacco; lentezza, imbarazzante, negli interventi sull’avversario lanciato all’attacco. Numerosi i calci di punizione concessi alla Francia per manifesta inferiorità tecnica e “nervosa”.

Un momento della partita Francia Italia, in cui i transalpini hanno travolto gli Azzurri
Qual è, allora; dov’è il guasto?
A nostro modo di vedere, con l’avvento e quindi col consolidamento del professionimo in uno sport fino a poco più di vent’anni fa espressione di puro dilettantismo, il ‘giocatore italiano’ è diventato un velleitario, un bellicoso, un mestierante… Commette troppi falli, nell’illusione che questi servano a rompere il ritmo dell’avversario. Non rompono un bel niente: sui susseguenti calci di punizione (i calci piazzati da dover spedire fra i pali e sopra la traversa), inglesi, francesi, irlandesi, gallesi, ci puniscono, com’è giusto che sia, con precisione spesso implacabile: nell’ultima edizione del “Sei Nazioni” e nel quadro della preparazione alla Coppa del Mondo, per via, appunto, di calci di punizione, abbiamo perso partite che altrimenti avremmo vinto. Come l’ultima col Galles a Cardiff.
Questo tuttavia non sembra entrare nella testa degli Azzurri, o di numerosi azzurri.
Non solo: a quanto ci sembra, il richiamo di una certa mondanità, che poi non è quella vera, quella di classe, ha esercitato, ed esercita, una certa presa su nostri nazionali, sensibili al complimento, alla lusinga, alla piaggeria. Ci sono poi i mezzi d’informazione, che non aiutano granchè: ci risiamo con la piaggeria, col complimento ‘sperticato’; con l’adulazione. Il ‘nazionale’ d’Italia si stacca così dalla realtà, in un certo senso si stacca perfino dallo spirito dello sport che con sommo entusiasmo abbracciò da bambino o da ragazzo. Vive come in un ‘bubble’, in una campana di vetro dove nulla gli manca. Nel dopo-partita di incontri andati parecchio storti, se proprio non s’arrampica sugli specchi, cerca comunque ‘comprensione’, accampa qualche scusa, promette d’impegnarsi sempre ‘al massimo’. Tutto questo è tristemente, disastrosamente superficiale.