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July 13, 2014
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Perchè, nella finale del gioco più bello del mondo, tiferemo Argentina

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 4 mins read

Si dice: è solo una partita di calcio. Si dice: con tutte le cose che accadono al mondo, invece di guardare la partita… Non siamo d'accordo. La finale dei Mondiali di calcio non è solo una partita di pallone. Non crediamo sia inutile o nocivo allo spirito dell'umanità che probabilmente oltre due miliardi di persone fermeranno ogni attività, per almeno due ore, per guardare 22 uomini che si sfidano rincorrendo una palla di cuoio. 

Come abbiamo scritto all'inizio dei Mondiali brasiliani, per avere quella passione che diventa quasi una "malattia", si deve aver cominciato a giocare e vedere le partite da fanciulli. Ma per capire l'importanza di queste sfide tra nazionali del mondo, non si deve essere stati necessariamente dei bambini affamati di pallone. Bisogna sgombrare dalla mente certi luoghi comuni, certi snobismi, e osservare attentamente quel gioco chiamato, da circa due secoli, "Football". Il calcio, secondo chi scrive, rappresenta meglio di qualunque altro sport di squadra, proprio in quello stupore nell'osservare la difficoltà che lo rende così bello (giocare a certi livelli è difficile!), la moderna rappresentazione dell'ancestrale bisogno umano di migliorare sempre la propria prestazione non solo fisica (chi corre più forte acchiappa la preda per sopravvive) ma soprattuto mentale. Chi non si fa prendere dal panico, chi ha i nervi saldi, chi sa ragionare e velocemente prendere decisioni in situazioni di estrema pressione sia fisica che psicologica, non solo sopravvive, ma vive meglio!

In questo sport si prende subito coscienza che da soli non arriva mai al successo, che e' la forza dell'unione di squadra che fa la differenza per vincere. Il più bravo allenatore (o leader politico) non è colui che ha gli schemi (o programmi) migliori. E' colui che riesce innanzitutto a tenere uniti e infondere fiducia alla squadra (o al popolo) che ogni obiettivo, se si lavora insieme e tutti compiono il proprio dovere, sarà raggiungibile.

Sono fermamente convinto che ogni squadra schierata in campo nei Mondiali ha da sempre rappresentato lo stato d'animo del proprio popolo in quel momento. L'Italia che vinceva negli anni Trenta, come ipnotizzata da chi, almeno fino al quel momento, riuscì a farla sentire "imbattibile"… Pensate ancora agli Azzurri del 1982, che rappresentavano un paese che nonostante le difficoltà quando si presentava l'occasione non aveva paura del successo, che infatti l'Italia allora era sesta potenza economica del mondo… E  quell'Italia, nel 2006, possedeva ancora questa sicurezza per arrivare fino in fondo e vincere. E poi pensate agli Azzurri visti prima in Sud Africa e poi, ancora peggio, in questi Mondiali. Uomini che vorrebbero tanto, come se quasi fosse loro dovuto, ma non sanno più come sostenere i sacrifici per arrivare alle loro aspirazioni o non hanno alcuna guida in cui possano aver fiducia…

Stessa cosa vale per il Brasile, visto travolto nella semifinale contro la Germania e poi venerdì nella finalina per il terzo posto persa nettamente contro la tonica Olanda. I brasiliani sono di colpo diventati dei brocchi? Non sanno più giocare? O invece c'era qualcosa nell'aria, qualcosa che gli impediva di esprimere il loro leggendario "calcio samba" tutto spettacolo e spensieratezza? Se si pensa in che atmosfera il Mondiale brasiliano si apriva alla vigilia, con le proteste nelle strade di tante fasce di popolazione stanche di aspettare che certe promesse si realizzino mentre il cosiddetto "miracolo economico" brasiliano non li sfiora mai… 

Gli Stati Uniti per esempio, nazione fondata sull'ottimismo e che per questo crede di poter raggiunge obiettivi impensabili agli altri (e infatti spesso gli riesce).  Quello che gli altri ritengono impossibile, per l'americano si deve almeno tentare. La squadra aveva dei grandi limiti tecnici, ma se ha giocato alla pari di squadre più forti, è perché lo spirito dei suoi giocatori non ha mai tradito quello del popolo americano che, infatti, si è identificato in quella squadra sostenendola con grande passione. 

E veniamo a questa finale Germania-Argentina. Pensateci. Non potevano che esser loro. Gli affidabilissimi tedeschi, macchina perfetta che non sbaglia un colpo, che ripete incessantemente gli schemi imparati a memoria e, senza aver mai avuto un super campione alla Pelè o Maradona, alla fine resta sempre lassù. La loro filosofia di gioco rispecchia il successo del loro paese. Disciplina, innanzitutto. Preparazione ancor prima che fisica, mentale a sostenere qualunque pressione psicologica e che consente loro quella continuità, quel giocare senza mai scendere sotto uno standard fisico-mentale che evita, non dico la possibilità di perdere, ma sicuramente della disfatta.  Alla Germania non accadrà mai di perdere con un distacco di sei gol come è invece accaduto ai brasiliani. E quindi la sicurezza, quella che qui negli USA si chiama "confidence", la coscienza di esser capaci di svolgere il compito assegnato. Sicurezza nelle possibilità al massimo delle proprie capacità, sempre. Sia se stai lavorando alla Mercedes, sia se si difende la porta della nazionale ai Mondiali.

Ed eccoci quindi all'Argentina che arriva nel 2014 alla finale dei mondiale brasiliani. Una nazione che, pur tra mille problemi, non si piega ai dettami della finanza internazionale. Che "scandalizzando" banchieri e giudici internazionali, afferma il suo diritto a risollevarsi dai debiti seguendo un percorso scelto e non imposto e che ritiene percorribile. Una nazione che non si piega alle minacce dei più forti. E soprattutto, una nazione che è stata capace di  dare alla Chiesa, in uno dei suoi momenti più bui, un super papa. Fin dalla scelta "rivoluzionaria" del nome Francesco, Bergoglio sta "resuscitando" una istituzione che ormai appariva in pericolo di disintegrarsi per gli scandali e le prevaricazioni.

L'Argentina quindi, per questo suo carattere, merita di essere in questa finale e di sfidare la "perfetta macchina" tedesca. Perché la sua squadra biancoceleste, come il suo popolo e il suo papa,  ha dimostrato di non aver paura di nessuno. E oggi, anche chi scrive tifa per lei,  non solo perché il 40% degli argentini ha un cognome italiano, ma soprattutto perché il calcio è il gioco più bello del mondo grazie sì alla riaffermazione dell'unità che fa la forza, ma anche perché arriva anche  il momento del "pluribus, unum". La meraviglia di vedere come anche il talento individuale in questo sport venga esaltato e come, quasi sempre, fa la differenza. Come fece con Pelè, con Diego Maradona. E, ci auguriamo, con un piccolo grande campione di nome Lionel Messi.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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