Chiusi dentro la bolla pandemica, giovani e adulti sembrano correre alla cieca in due direzioni opposte, come criceti in cattività. Internet sembra essere l’unica via di fuga da una realtà asfittica e opprimente. Lo smartphone è diventato un prolungamento dell’arto, e la sostituzione del dialogo familiare col mutismo assorto davanti a uno schermo luminoso, la normalità. Esiste tuttavia un labile confine tra l’abitudine inerte allo stato on e l’abuso compulsivo delle nuove tecnologie che può sfiorare la nuova psicopatologia da web detta “Internet Addiction”.
L’era digitale ha promosso un nuovo modo di comunicare in cui le immagini prevalgono sulle parole – spiega a La Voce di New York Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, Professore aggregato dell’Istituto di Psichiatria e Psicologia nella Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso il Policlinico Gemelli di Roma, autore del libro Quando internet diventa una droga, edito da Einaudi – e questo è un fatto evolutivo che, come tutte le evoluzioni, può comportare derive patologiche. Tuttavia, l’iperconnessione negli adolescenti è un sacrosanto diritto. Le situazioni pericolose nascono quando gli adulti non riescono a gestire l’ansia tipica della fase adolescenziale dei propri figli.
E’ internet il vero problema?
“No, è l’adolescenza, che per i giovani è spesso una montagna troppo alta da scalare. Tuttavia, se non ci fosse stato internet, le cose sarebbero andate molto peggio. I ragazzi sono da considerare soggetti a rischio, la cui identità si forma in relazione con l’altro da sé. Se le relazioni per qualche motivo vengono inibite e non possono essere praticate, ciò inficia necessariamente la capacità dei ragazzi di creare le fondamenta della propria identità. Nella maggior parte dei casi, i giovani hanno trovato durante la pandemia modi alternativi di sopravvivere, e questo soprattutto grazie alla rete. Ricordiamo che le basi per le forme più gravi di psicopatologia negli adolescenti sono la noia e la rabbia”.
Quali sono gli interventi che un genitore può attuare per ridurre l’attaccamento all’oggetto tecnologico senza suscitare rabbia o delusione?
“E’ chiaro che devono essere posti dei limiti, che rappresentano i nostri confini nella vita, e che sono una medicina contro l’onnipotenza, di cui sappiamo qualcosa anche noi adulti. Bisogna impartire regole cercando di spiegare sempre le motivazioni per cui vengono date. Se si danno, come spesso accade, per vincere sul più giovane e ridurlo all’obbedienza, in un assurdo gioco di forze, l’unico risultato che si ottiene è l’accumulo di rabbia nel bambino. Le regole vanno date per innescare trattative – anche qualora fossero estenuanti – in maniera simmetrica, in una dialettica dove non esiste vincitore o vinto. Il muro contro muro, che a volte viene esercitato anche con bambini molto piccoli, è una modalità delirante da parte degli adulti”.
Non sono solo gli adolescenti a sviluppare Internet Addiction, ma anche gli adulti. Quali sono le ragioni in questo caso?
“In quest’epoca abbiamo tutti un rapporto fusionale col nostro cellulare. E’ la prima cosa che guardiamo quando ci svegliamo la mattina! Pensiamo solo a quando crediamo di averlo perso: sviluppiamo un’ansia e un terrore incredibili. L’Internet Addiction negli adulti ha a che fare col controllo e con la paranoia. Esistono tantissimi adulti che controllano la fedeltà del partner con dei profili fake. Questo è pericoloso, perché si confondono le fantasie, di cui chiunque ha diritto, col reale, e purtroppo il digitale si presta ad essere una zona di sovrapposizione tra mondo interno e mondo esterno. La dipendenza da internet è una sovrastruttura, e come tutte le dipendenze, nasconde sempre un’angoscia più profonda”.
La gratificazione che si riceve online è sufficiente a colmare il vuoto interiore?
“Ovviamente no. Però dobbiamo ammetterlo: ricevere dei like è una gratificazione narcisistica di cui tutti abbiamo bisogno. Non ci siamo mai guardati allo specchio così tanto come quando eravamo adolescenti, pur senza piacerci. Il bisogno narcisistico di essere riconosciuti e di piacere quando non riusciamo a piacere a noi stessi, è fisiologico, non occorre drammatizzarlo. Ricorda? Quando eravamo giovani proponevamo all’altro un io ideale, romanzato, che nasceva in seno a quello che si chiama “sogno ad occhi aperti” in quel luogo autistico che è la nostra mente, per poi magari recedere se ci rendevamo conto che questa immagine ideale non veniva apprezzata. Questo accadeva senza particolari conseguenze, ai nostri tempi”.
E’ lo stesso tipo di trasfigurazione del sé che mettono in atto i ragazzi su internet?
“Proporre un io ideale è un’operazione tipicamente adolescenziale, e oggi viene esercitata nei profili social, che non rappresentano un luogo autistico, ma un contesto relazionale. Di questo i giovani devono assumersi la responsabilità; è questo il motivo per cui le conseguenze delle esperienze di vergogna, che rappresentano negli adolescenti dei veri e propri breakdown di parti di identità, sono più gravi. D’altra parte, tutte le relazioni dei ragazzi oggigiorno si svolgono all’interno della dicotomia vergogna-popolarità”.
Una prolungata permanenza online può generare alienazione e perdita del senso del sé e della realtà?
“Se non ci sono predisposizioni pregresse, direi di no. Le fantasticherie non verbalizzate sono un nostro diritto. La dispersione dell’identità si ha tutte le volte che abbiamo la testa altrove; basta leggere un libro per vagare in un altro mondo. Non si tratta solo di internet: queste forme di alienazione ci sono per fortuna sempre state e sono funzionali ad altre attività, come la concentrazione. La differenza, rispetto alle attività online, è che queste ultime permettono una maggiore interattività e possono condurre a stati dissociativi prolungati. Per fortuna il neurone è plastico, e ha una grande capacità di adattamento. Dobbiamo immaginare la nostra mente come un’orchestra, dove non è importante che uno strumento suoni più di un altro, piuttosto che la musica sia sempre armonica”.
Quali dolori, bisogni, angosce o frustrazioni possono nascondersi dietro a uno schermo?
“Quasi sempre, quando arriva un nuovo ragazzo in psicoterapia, è opportuno occuparsi prima dei genitori. La distanza generazionale rispetto ai figli non è solo una manciata di capelli bianchi in più. E’ che normalmente i genitori non hanno idea che cosa i figli pensino, anche perché si solito alla domanda “A che pensi?”, i figli rispondono: “A niente”. Improvvisamente non riconosciamo più i nostri figli, e soprattutto non ci ritroviamo più in loro. Questo perché sin da quando sono piccoli, ci cerchiamo in loro dalla mattina alla sera, e a volte quando non ci ritroviamo, secondo un meccanismo inconscio, gliela facciamo pagare”.
I figli sono sempre una proiezione dei genitori?
“Il primo luogo dove nascono i bambini, è nella nostra immaginazione. Il modo in cui immaginiamo i nostri figli, è per loro un’operazione psicoattiva, e finiscono per essere inevitabilmente il prodotto di come sono stati immaginati. Per fortuna coincidono solo in parte con queste proiezioni. E’ bellissimo il momento in cui, di fronte al gesto spontaneo di un bambino, papà e mamma si guardano negli occhi e si chiedono: “Ma da chi ha preso?”. E’ esattamente quello il momento in cui i bambini sono se stessi. Queste loro manifestazioni vanno protette. Un tale atteggiamento di ribellione si concretizza, in età adolescenziale, nel diritto a deludere le aspettative genitoriali. Gli adulti devono accettarlo, anche se è faticoso. Nessuno ha mai detto che avere un figlio adolescente sia cosa facile”.
Cosa accade se non ci si ribella ai diktat genitoriali?
“Io mi occupo di quei bambini che hanno avuto un accumulo energetico, che non hanno potuto esprimere l’aggressività per apprendere dall’esperienza, e questa ha prodotto in loro un eccesso di rabbia da gestire. Se la gestiscono incanalandola nell’apparato cognitivo, possono diventare individui iper-razionalizzanti oppure, per contro, sviluppare disturbi dell’apprendimento, che è basato sulla noia, non su un deficit cognitivo. Internet rappresenta solo un modo diverso di apprendere, dove le immagini stanno al posto delle parole. La scuola non è affatto preparata a questo nuovo modo di apprendere; non se ne può attribuire la responsabilità agli adolescenti. Basterebbe un tablet in classe, e non zaini che pesano 15 chili! Esiste poi la possibilità di incanalare la rabbia sul corpo. Ciò può portare i bambini ad ammalarsi, prima ancora di avere occasioni di massima socialità, come la gita scolastica, la festa di fine anno o altre esperienze collettive”.
La psicoterapia risulta efficace per la dipendenza da internet?
“Credo molto nella psicoterapia. Non sono il detentore della verità, ma limitandomi a parlare di ciò di cui ho esperienza, per me la psicoanalisi è la Champions League delle terapie”.
Qual è la strategia vincente fra genitori e figli?
“Quella più sana si basa sulla fiducia, consapevoli che è difficile darla e soprattutto mantenerla. La fatica che si fa a mantenere la coerenza dopo aver accordato fiducia, viene avvertita dai figli come vera presenza genitoriale”.
Il principale errore, invece?
“Il controllo. Non serve mai a conoscere meglio un figlio, ma solo a impazzire, perché il controllo fa molto più male a chi lo esercita che a chi lo subisce inconsapevolmente. Come in ogni altra relazione, anche in quella coi figli gli adulti hanno una parte di responsabilità. Bisogna imparare a chiedere scusa quando si sbaglia, con sincerità e senza infingimenti. Nelle relazioni c’è più che mai bisogno di autenticità”.