A partire da ieri, 15 marzo, la metà dell’Italia si trova in zona rossa (11 Regioni più una provincia autonoma) per almeno due settimane, mentre il restante territorio è in zona arancione ad eccezione della Sardegna, terra promessa i cui abitanti attendono i connazionali nell’utopica zona bianca. Si tratta delle misure più dure adottate dalla quarantena totale dello scorso marzo.
Il presidente Draghi, prendendo in prestito una delle mosse del suo predecessore, ha varato un decreto legge che pone le aree rosse del paese in una sorta di lockdown sotto mentite spoglie: divieto di spostamento tra e entro i comuni e le regioni se non per ragioni di lavoro, salute o urgenza, coprifuoco dalle 22 alle 5, bar e ristoranti chiusi, negozi non essenziali, parrucchieri e barbieri con serrande abbassate. Soprattutto, scuole chiuse, con la sospensione delle attività a tutti i livelli, inclusi asili e asili nido ad eccezione delle attività per studenti con disabilità.

In merito alle scuole non hanno tardato ad arrivare le proteste, in opposizione alla sospensione della didattica in presenza anche ai cicli inferiori, una misura che violerebbe il diritto allo studio e potrebbe penalizzare l’istruzione futura di una intera generazione. Si aggiunge poi la complicazione che, in questo secondo lockdown, molte più attività e fabbriche rimangono aperte rispetto ad un anno fa, chiedendo ai genitori di trovare una soluzione per i figli più piccoli, che non possono essere lasciati a casa da soli, con un bonus babysitter che sembra non essere un sussidio sufficiente.
Se online fioriscono i meme, dal grande ritorno del lievito di birra per a dedicarsi alla cucina alle battute sulla somiglianza sospetta tra le restrizioni di Draghi e quelle del Conte bis, viene da domandarsi se anche la situazione pandemica sia di gravità analoga. Possiamo rassicurarci sul fatto che, sebbene tristemente alti, i dati di oggi non sono quelli del marzo 2020: i nuovi casi giornalieri oggi sono il quadruplo di allora (circa 20mila al giorno contro i circa 5mila di allora), ma questo è da attribuire alla migliorata capacità di tracciamento e all’aumento di tamponi quotidiani; la media settimanale dei decessi è ancora terribile, ma è dimezzata rispetto a un anno fa (342 oggi contro 763); le terapie intensive, potenziate significativamente nell’ultimo anno, registrano oggi circa 3100 pazienti, contro i 4mila della scorsa primavera. Insomma, se le misure riportano indietro nel tempo, i dati dovrebbero confortarci leggermente sulla situazione.
Ciò che invece non conforta è la situazione vaccinale. Poco dopo avere sequestrato le dosi di un lotto di AstraZeneca a seguito di cinque decessi sospetti per trombosi, ma avere rassicurato sulla efficacia e sicurezza del vaccino di Oxford, ieri mattina l’AIFA ha bloccato completamente in tutto il paese la sua somministrazione, in linea con quanto fatto in Francia e Germania.

Ufficialmente, si tratta di una misura del tutto precauzionale volta a fare ulteriori accertamenti e rassicurare che non vi sia alcun legame causale tra le morti sospette e l’assunzione del vaccino. Tuttavia, sebbene la somministrazione di AstraZeneca dovrebbe riprendere regolarmente a partire da giovedì, se l’EMA come si prevede ne confermerà la sicurezza, questa notizia rischia di azzoppare la campagna vaccinale. L’obiettivo, annunciato appena domenica da Figliolo, di ottenere l’immunità di gregge vaccinando l’80% degli italiani entro settembre scivola tra le mani senza AstraZeneca: delle dosi conteggiate nei calcoli del commissario straordinario su cui si basa la proiezione dell’immunità autunnale, ben 40 milioni dovevano provenire proprio dall’azienda britannica.
Il timore, se anche si riprendesse a vaccinare regolarmente, rimane quello di un effetto boomerang: già prima di questo increscioso incidente era alto il numero di cittadini che disdicevano gli appuntamenti preferendo aspettare la disponibilità di Pfizer o Moderna, e si teme che lo stop di questi giorni anziché rassicurare i cittadini crei ancora maggiore diffidenza. Il governo ha tentato di assicurarsi una scialuppa di salvataggio consultandosi con Johnson e Johnson per aumentare o velocizzare le forniture, rimanendo però a bocca asciutta, come del resto tutti gli altri paesi europei, che al pari dell’Italia si stanno muovendo.
E così si parla di aumentare le partnership per produrre i vaccini autorizzati in altre case farmaceutiche, o di iniziare a mettere a fattore anche Sputnik V. Tutte strade praticabili e percorribili, che saranno probabilmente prese dal Governo quando possibile, ma nessuna di queste opzioni fornirebbe però una soluzione immediata, che sembra essere proprio quello che servirebbee in questo momento nel Bel Paese.