Cancer Alley è il nome con cui viene generalmente indicata la zona della Louisiana lungo il fiume Mississippi tra Baton Rouge e New Orleans. Una regione altamente industrializzata. Proprio la presenza di molti impianti indutriali avrebbe fatto sì che venisse chiamata il “vicolo del cancro”. “Ci stanno uccidendo qui in Cancer Alley”, è il grido d’allarme di Sharon Lavigne, fondatrice del gruppo di difesa della comunità RISE St. James.
Il problema che è alla base delle morti nella Cancer Alley è noto da decenni. Ora qualcosa, forse, potrebbe cambiare: a parlarne sono stati gli esperti delle Nazioni Unite, Tendayi Achiume, Dominique Day, Ahmed Reid, Michal Balcerzak, Sabelo Gumedze, Ricardo A. Sunga III, Dante Pesce, Surya Deva, Elżbieta Karska, Githu Muigai e Anita Ramasastry, David Boyd, Tlaleng Mofokeng e Marcos Orellana, che hanno etichettato come una forma di “razzismo ambientale” l’industrializzazione selvaggia della Cancer Alley degli Stati Uniti.
Un tempo quest’area era chiamata “Plantation Country” (era il luogo dove gli schiavi africani lavoravano da schiavi in piantagioni a perdita d’occhio). Ora è un importante hub industriale che ospita quasi 150 raffinerie di petrolio, impianti per la produzione di materie plastiche e impianti chimici di vario genere. Tutti processi produttivi che inquinano l’acqua e l’aria e che, nel corso dei decenni, hanno causato un aumento impressionante dei casi di cancro, di malattie respiratorie e di altri problemi di salute. Soprattutto nelle persone di colore. “Questa forma di razzismo ambientale pone minacce gravi e sproporzionate al godimento di diversi diritti umani dei suoi residenti in gran parte afroamericani, tra cui il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione, il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto a un adeguato tenore di vita e diritti culturali”, hanno detto gli esperti delle Nazioni Unite.
Questo stato di cose va avanti da molti decenni. Già durante la Guerra Fredda, la Cancer Alley era definita “Zona di sacrificio nazionale” con riferimento alle aree contaminate dall’estrazione e dal trattamento dell’uranio per creare armi nucleari. Nel 1987, le autorità rilevarono un numero eccessivamente alto di casi di cancro nella zona di St. Gabriel, principalmente abitata da afro-americani (il 49,4% dei residenti) e a basso reddito (il 20,7% della popolazione vive in povertà). Ma dato che solo una ridotta percentuale di loro lavorava nell’industria si preferì non vedere il rapporto di causa ed effetto esistente e nessuno fece nulla.
In pochi anni, l’area caratterizzata da elevati casi di cancro si è estesa fino a coprire una striscia di ottantacinque miglia lungo fiume Mississippi. E i danni per la popolazione sono aumentati. Già nel 2002, la Louisiana aveva il secondo più alto tasso di mortalità per cancro tra tutti gli Stati USA: 237,3 morti ogni 100.000 abitanti a fronte di una media nazionale di 206 ogni 100.000. Non ci volle molto per scoprire che, nella Cancer Alley, i casi di cancro allo stomaco, di diabete e di malattie cardiache erano molti di più. E che a causare questa “anomalia” erano le industrie: a confermarlo, nel 2000, furono i dati del Toxics Release Inventory (TRI) e il fatto che sette dei dieci impianti dello stato responsabili delle maggiori emissioni si trovavano proprio nella Cancer Alley.
Furono necessari altri due decenni, per vedere qualcosa di concreto: a Novembre 2020, gli Ingegneri dell’Esercito degli Stati Uniti hanno messo i sigilli agli impianti a Cancer Alley del gigante industriale taiwanese Formosa Plastics Corp, affermando che il progetto (che, però, nel 2018 era stato approvato) avrebbe più che raddoppiato i rischi di cancro nella zona.
Recentemente, a parlare del “vicolo del cancro” è stato il nuovo presidente degli USA, Joe Biden che ha firmato nuovi ordini di giustizia climatica e ambientale. Ma passare dalle promesse ai fatti non sarà facile. Negli anni, molti dei presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca hanno fatto promesse simili (anche Barak Obama disse praticamente le stesse cose che ha detto Biden). Ma molte di queste promesse, nel tempo, si sono sciolte come neve al sole. E nella Cancer Alley le persone (soprattutto di colore) hanno continuato a morire.
Anzi, negli ultimi anni, sono pure diminuiti i controlli: l’EPA, che nel 2016 aveva avviato un progetto in questa zona per raccogliere campioni d’aria per valutare i potenziali rischi per la comunità derivanti dalle emissioni di cloroprene, ha annunciato che tali rilevamenti verranno sospesi.
Ma non basta. Nel 2020, a causa della pandemia da COVID-19, la situazione per gli abitanti della Cancer Alley è peggiorata. “Essere in aree di maggiore esposizione agli inquinanti atmosferici comuni… aumenta il rischio di acquisire polmonite. Quindi, nella misura in cui il Covid si comporta in modo simile alla polmonite batterica, che è più comune, o ad altre polmonite virali, abbiamo prove che l’esposizione a lungo termine … aumenta la tua suscettibilità all’acquisizione della malattia” ha dichiarato Michael Jerrett, professore di scienze della salute ambientale presso la UCLA Fielding school of public health. Una preoccupazione condivisa da Wilma Subra, scienziata ambientale che ha riportato un caso, secondo lei, esemplare: “Lo stabilimento di Denka rilascia sostanze chimiche tossiche nell’aria da 50 anni. Tutta la comunità ha un qualche tipo di impatto respiratorio, alcuni più di altri. Ma sono già molto vulnerabili”, ha detto. “E poi si aggiunge l’esposizione al virus, che ha un enorme impatto sui polmoni, allora sono molto più inclini a ottenerlo e quindi ad avere effetti molto dannosi”. Immediata la risposta del portavoce di Denka, Jim Harris che ha ribadito che non ci sarebbe alcuna relazione tra le emissioni dell’impianto e un aumento del rischio di Covid-19.
Quello delle Cancer Alley non è un caso isolato. Situazioni analoghe esistono in quasi tutti i continenti: in Africa, in Asia, ma anche nella “sviluppata” Europa, dove sono stati rilevati valori elevati di malattie in zone dove si trovano certi impianti industriali. Anche in Italia. Basti pensare alla zona di Taranto dove, anche con l’ILVA ai minimi della produzione, i casi di tumore ai polmoni restano ben più elevati della media nazionale.
O a Gela, in Sicilia. Anche qui, come in Louisiana, le aziende del petrolchimico sono state spesso accusate di causare morti e danni alla salute degli abitanti. Accuse supportate dai numeri: il tasso di mortalità è più alto che nel resto d’Italia (del 7% tra gli uomini e del 15% tra le donne). Le cause sono sempre le stesse: tumori (+15% uomini e +13% donne); e poi malattie urinarie +37% uomini e +33% donne. Elevati oltre la media i tassi di mortalità e i ricoveri per tumori anche nei giovani. A confermarlo anche il rapporto Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità nel quale venivano analizzati i dati sulla mortalità in 44 dei 57 Siti di Interesse Nazionale (Sin) per le bonifiche, cioè aree con forte contaminazione ambientale (tra questi, ovviamente, anche l’area di Taranto dell’ILVA e Gela). Il rapporto documenta, su base scientifica, il rischio al quale sono esposti i 5,9 milioni di italiani che abitano dei comuni nei quali ricadono questi impianti. Donne, uomini e bambini che rischiano di ammalarsi solo per il fatto di abitare lì invece che altrove. Così si scopre che i morti “in eccesso” per patologie oncologiche sono stati 1.220 tra gli uomini e 1.910 tra le donne. Tra loro anche molti bambini e adolescenti.
In tutti questi casi, il rapporto tra causa ed effetto è ben noto. Ma trasformare la teoria in realtà è un’altra storia. Come nella Cancer Alley (e in molti altri luoghi simili nel mondo), la presenza di questi stabilimenti ha un peso non indifferente sull’economia locale e, per assurdo che possa sembrare, a volte sono gli stessi lavoratori o i cittadini a mostrarsi restii alla chiusura degli impianti. A questo si aggiunge che, talvolta, la giustizia appare tanto lenta da essere “ingiusta”: a Settembre scorso, nel processo per presunte irregolarità nella gestione dell’amianto e dei rifiuti pericolosi negli impianti ENI della Raffineria di Gela, il tribunale di Enna ha dichiarato il reato prescritto il giorno prima (!) della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Gela che aveva condannato a quattro mesi alcuni dirigenti della raffineria, scatenando le proteste della Procura e dei legali di alcuni ex lavoratori esposti a questi materiali (ora a decidere sarà la Cassazione).
Analoga la situazione in Louisiana, nella Cancer Alley: secondo gli esperti delle Nazioni Unite, “le normative ambientali federali” non sarebbero “riuscite a proteggere le persone residenti”. In questo caso, non si tratta di casi isolati, ma addirittura di una violazione dei diritti culturali. Questi impianti non causano solo inquinamento e danni alla salute: distruggono tutto ciò che trovano. “I discendenti afroamericani delle persone schiavizzate che un tempo lavoravano la terra sono oggi le principali vittime dell’inquinamento ambientale mortale che questi impianti petrolchimici nei loro quartieri hanno causato”, ha dichiarato il team di esperti delle NU. Per questo, hanno giudicato positivamente l’ordine esecutivo del presidente Joe Biden sulla protezione della salute pubblica e dell’ambiente. Nel firmarlo, Biden ha dichiarato: “La giustizia ambientale sarà al centro di tutto ciò che facciamo quando si tratterà di affrontare gli impatti sproporzionati sulla salute e sull’ambiente e sull’economia sulle comunità di colore”. Vedremo.
Intanto, in attesa di una risposta concreta o di leggi federali che consentano di passare dalle parole ai fatti, nella Cancer Alley si continua a morire di cancro. Una morte doppiamente ingiusta: i ricercatori della Environmental Protection Agency, hanno scoperto che i rischi di ammalarsi per le persone di colore sono di 105 casi per milione di residenti, mentre nelle aree in cui la popolazione era per lo più bianca variano da 60 casi a 75 casi per milione. Morti le cui cause, in tutto il mondo non solo in nella Cancer Alley, sono per lo più note, ma per ridurre le quali non si fa nulla. Secondo l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attualmente, sarebbe possibile evitare dal 30 al 50% dei tumori. Basterebbe volerlo davvero.