Il pressante e grave problema della pandemia, ormai da un anno in primo piano in tutto il mondo, e l’altra pesante preoccupazione, la crescente distanza del clima dalla normalità, emergenza ora in secondo piano, quasi oscurata da quella sanitaria, sono in realtà due conseguenze di uno stesso comportamento dell’uomo: la pretesa di dominio sulla natura.

Dopo una positiva fase storica (i secoli da poco alle nostre spalle), caratterizzata dalle vittorie sulle malattie, sulle carestie, sulla fame e la povertà, ora scontiamo le conseguenze di una errata convinzione di essere i padroni assoluti del mondo. Un pianeta che è invece afflitto e sporcato dallo smog, dagli scarichi industriali e urbani, dalla plastica, che è fragile di fronte agli eccessi atmosferici, ai disperati flussi migratori, ai virus mortali.
È ora che ci convinciamo che non dobbiamo, né possiamo dominare la natura. Semplicemente perché ne facciamo parte, e dobbiamo dunque tener conto di ogni interazione tra il nostro modo di comportarci e le reazioni dell’intero ambiente planetario.
La scienza e la tecnica, con i loro innegabili progressi, ci aiuteranno senz’altro, ma scienza e tecnica dovranno migliorare la nostra esistenza senza portarci al di fuori dei confini di un sostenibile progresso.
La natura, senza essere matrigna, segue semplicemente la strada del minimo dispendio di energia, con le alluvioni e le siccità, gli uragani, la fusione dei ghiacci, i terremoti, le eruzioni vulcaniche, le pandemie. E di conseguenza sorgono anche le crisi economiche, il divario tra ricchezza e povertà, le migrazioni, e perfino le guerre.

(pixabay – MatthewGollop)
Se, come è stato detto forse per spaventarci, si arrivasse alla nostra totale estinzione, se scomparisse del tutto la razza umana, la natura non accuserebbe alcuna grave conseguenza. Con una ridotta visione prospettica di questa ipotesi, si può notare che la minore presenza e cura dell’uomo in ambienti urbani comporta il rapido sviluppo di erbe infestanti nel tessuto del cemento e dell’asfalto, e persino la crescente presenza di animali randagi e indesiderati nei parchi e nelle periferie.
Migliorare il nostro rapporto con l’ambiente che abitiamo vuol dire far pace con la natura, anziché pretendere di farla nostra a ogni costo. Questo concetto può essere riassunto dall’acronimo delle quattro lettere: P, A, C, E.
P come politica. La questione di un sostenibile progresso non può prescindere dalle buone decisioni, compito delle politiche internazionali, nazionali, locali. Politiche non solo oneste, condizione necessaria ma non sufficiente, ma anche capaci di vedere lungo, di programmare e di concretizzare.
A come ambiente. È logico, imprescindibile, occorre avere la capacità di studiare, capire, rispettare la natura, traendone vantaggi senza mai violentarla.

C come cultura. Uno dei massimi problemi dell’uomo di oggi è la dilagante mancanza di cultura, intesa non come ingessato possesso e sfoggio di sapienza, ma come civiltà, come rispetto di noi stessi e degli altri, mediante comportamenti lontani da ogni violenza, razzismo, intolleranza religiosa, sessismo, fino all’abbandono di ogni forma di dipendenza, dalle droghe, dall’alcool, dalla schiavitù ludica, dallo stordimento con i cellulari, dai tatuaggi, questi a mio avviso veri insulti alla naturalezza del nostro corpo. Per una fondante cultura sono indispensabili una buona scuola, già dalle elementari, e buoni strumenti mediatici: televisione, radio, giornali, internet. Direi che, quanto ai media, siamo a livelli mediocri, imbarazzanti.
E come economia. È chiaro che per mettere a frutto le buone intenzioni occorrono soldi e occorre saperli spendere bene. Programmare con occhio lungo per la cura del territorio, ad esempio, significa investire con criterio e perfino risparmiare rispetto alle ingenti spese necessarie per riparare i danni conseguenti a ogni manifestazione violenta della natura.