Nel corso degli anni, vari studi su differenti virus, incluso il SARS-CoV-1, hanno dimostrato che la loro sopravvivenza in un certo ambiente dipende da diversi fattori, tra i quali la temperatura, l’umidità, l’esposizione ai raggi solari ed il materiale in cui il virus è sospeso. Al giorno d’oggi, come conseguenza della pandemia in corso, sono proliferati gli studi su SARS-CoV-2 e tra questi ve ne sono alcuni relativi al comportamento del virus e alla sua capacità di resistenza su superfici di diverso tipo e/o in diversi contesti di ambienti al chiuso.
Ad esempio, è stato osservato che il SARS-CoV-2 può persistere su superfici non porose per molti giorni e in ambienti interni a 23 ⁰C con 40% di umidità relativa, oppure a 22 ⁰C con 65% di umidità. Proprio recentemente è stato pubblicato uno studio sul Journal of Infectious Diseases in cui vengono riportate le prime evidenze del possibile ruolo dei raggi solari sulla inattivazione del SARS-CoV-2. Gli esperimenti sono stati condotti mediante una simulazione di emissione di raggi UVB con livelli equivalenti ai livelli di UVB solari in un solstizio estivo in pieno giorno e in un solstizio invernale in pieno giorno e a determinate latitudini. L’irraggiamento è stato effettuato su una superficie non porosa su cui è stata applicata una matrice di saliva simulata, disidratata, e contenente il virus. In condizioni di simulazione di una giornata di solstizio d’estate, e di simulazione di saliva su una superficie, i risultati hanno evidenziato una inattivazione virale del 90% ogni 6,8 minuti, mentre in condizioni di solstizio invernale il 90% di inattivazione virale si è registrata dopo 14,8 minuti.
I dati raccolti dai ricercatori suggeriscono che la trasmissione virale potrebbe essere notevolmente ridotta con l’esposizione diretta ai raggi solari in ambienti esterni, tuttavia la percentuale della inattivazione virale è condizionata dai livelli di esposizione ai raggi UVB, che a loro volta sono influenzati dal periodo dell’anno e dalle condizioni meteorologiche locali. Conseguentemente, a differenza delle condizioni sperimentali simulate, in ambienti esterni ci si attende un certo grado di variabilità giornaliera della persistenza del SARS-CoV-2 su superfici non porose.
Nello studio proposto non è stata inoltre evidenziata inattivazione virale in condizioni di oscurità ed in uno spazio temporale dei 60 minuti di durata dell’esperimento. Inoltre, anche la natura della matrice in cui il SARS-CoV-2 è incubato influenza il suo degrado: ad esempio, l’inattivazione virale è risultata due volte più veloce in una saliva simulata rispetto ad una matrice contenente il virus in un terreno di coltura.
Ciò è probabilmente dovuto al fatto che nel mezzo di coltura vi possano essere elementi che proteggono il virus dall’azione dei raggi solari, coerentemente con quanto riportato nel caso di SARS-CoV-1, ove la presenza di albumina nel terreno di coltura offre una certa protezione al virus dalla sua fotoinattivazione. Sebbene vi siano molti altri parametri da considerare che possano influenzare il rischio di esposizione al virus in un ambiente esterno, quali il carico virale presente sulla superficie di contatto, l’efficienza del trasferimento del virus da diverse superfici, la quantità di virus necessario per causare una infezione, questo studio dimostra, per la prima, volta la possibilità che i raggi solari diminuiscano il rischio dell’esposizione in ambiente esterno, rispetto ad un ambiente chiuso, disattivando il SARS-CoV-2 presente su una superficie in tempi più celeri, e possano rappresentare un disinfettante efficace per materiali non porosi contaminati.