La diffusione dell’epidemia di Covid-19, anzi la pandemia (dato che sono stati rilevati casi di contagio in oltre 180 paesi del mondo), ha fatto emergere alcuni problemi fino ad ora sfuggiti dall’attenzione generale.
Il primo è che anche i paesi più “sviluppati” non sono in grado di far fronte a simili eventi: mancano infrastrutture, medici, macchinari, medicinali e materiali di ogni genere, a cominciare da quelli più importanti per la sicurezza personale. Solo la Cina, che non è un paese “sviluppato”, è stata capace di reagire con una rapidità sorprendente (costruendo tra l’altro, non uno ma due giganteschi ospedali in tempo record). Sorge spontaneo chiedersi a cosa si riferisca la definizione di “sviluppato”.
Altro aspetto importante è quello legato alle scelte dei singoli governi in materia di sanità. Ai due estremi troviamo paesi come gli USA, dove l’apparato è quasi interamente in mano ai privati (fatta eccezione per pochi programmi: Medicare, Medicaid, Children’s Health Insurance Program e Veteran Health Administration). Fino ad ora i tentativi di realizzare un sistema sanitario misto pubblico-privato (ci provò Lyndon B. Johnson, poi Franklin Delano Roosevelt e, per ultimo, Barack Obama) non hanno avuto grande successo. Solo chi ha firmato (e pagato) polizze adeguate ha accesso prestazioni sanitarie adeguate. Simile al sistema statunitense quello del Regno Unito.
Dall’altro lato, c’è il sistema assistenzialistico statale: la salute è un “bene comune” e tutti i cittadini ricevono dallo stato assistenza sanitaria, controlli cure e interventi.
Tra questi estremi, decine e decine di forme “miste”. Come il sistema italiano, dove la sanità è (quasi) completamente pubblica: l’articolo 32 della Costituzione ribadisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”, ma molti farmaci sono stati inseriti in fascia C quindi prescrivibili ma a pagamento.
Si tratta di differenze che in momenti di crisi fanno emergere il lato peggiore della società. In paesi come l’Italia, a farsi carico dell’enorme e forse insostenibile costo dell’epidemia di Covid-19 saranno le casse dello stato (e quindi tutti i cittadini). In Gran Bretagna, invece no: fino a qualche giorno fa, la strategia adottata dal governo era prepararsi a “perdere persone care prematuramente”, come aveva dichiarato ha detto il premier Boris Johnson senza mezzi termini (e che ora anche lui è risultato positivo al virus!).
Negli USA e nel Regno Unito la decisione di non intervenire potrebbe essere dovuta più ai costi che al ridotto numero di casi (come si fa a sapere quanti sono i malati e i portatori sani senza effettuare i costosissimi test?).
Differenze nel gestire la sanità pubblica (e privata) avranno notevoli conseguenze economiche oltre che geopolitiche, nel prossimo futuro.

La prima è che è ormai evidente che non sarà possibile assistere tutti i pazienti gravi: mancano le infrastrutture, i macchinari e persino medici e infermieri (tornano in mente i miliardi di dollari spesi ogni anno per armi e armamenti). Questo crea un problema a dir poco mostruoso dal punto di vista umano, sociale, politico e geopolitico: di fronte alla scelta se salvare questo o quel paziente chi scegliere? E in base a quali criteri?
In Italia, l’ultima ratio è lasciata al medico. Di fronte all’impossibilità di mandare in terapia intensiva due pazienti gravi, è il medico a dover scegliere (e gravarsi della responsabilità morale se non legale che uno dei due muoia per non aver ricevuto quelle cure). “Questo è qualcosa che abbiamo pensato alla maggior parte delle nostre carriere”, ha detto Carl Hinkson, direttore della linea di servizio polmonare del Providence Regional Medical Center.
Un peso spaventoso (non osiamo neanche pensare il giovane appena laureato, neanche specializzato e assunto con l’ultima chiamata alle armi dal governo).
Alcune associazioni di categoria hanno cercato di fornire indicazioni. La SIAARTI, la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva per gestire l’ammissione ai trattamenti intensivi il 7 marzo scorso ha pubblicato un documento nel quale suggerisce ai medici di privilegiare la “maggior speranza di vita”. Si suggerisce “di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo “first come, first served””, ma solo “dopo che da parte di tutti i soggetti coinvolti sono stati compiuti tutti gli sforzi possibili per aumentare la disponibilità di risorse erogabili (nella fattispecie, posti letto di Cure Intensive) e dopo che è stata valutata ogni possibilità di trasferimento dei pazienti verso centri di cura con maggiore disponibilità di risorse”.
Una scelta difficile e che riguarda molti paesi. Anche lì si verificherà questo problema. Negli USA ci sarebbero solo 800.000 letti ospedalieri , dei quali però solo 68.000 per unità di terapia intensiva per adulti di qualsiasi tipo e, anche con la riserva strategica, meno di 100.000 ventilatori. Numeri insufficienti a curare tutti. Chi scegliere? Chi paga di più? O le persone più importanti (la definizione di “importante” è critica quanto quanto quelle di “sviluppato” vista prima)? Nel peggiore dei casi, dovrebbero essere i medici a decidere “chi vive e chi muore”, ha dichiarato il dott. Ezekiel Emanuel, oncologo e presidente del dipartimento di etica medica e politica sanitaria dell’Università della Pennsylvania. “È orribile”, ha detto Emanuel. “È la cosa peggiore che puoi fare”. In un rapporto del luglio 2011, firmato da un sottocomitato etico dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, si afferma che anche negli USA il “principio della prima malattia” potrebbe non essere più applicabile durante una pandemia perché “può portare all’uso di risorse da parte di pazienti che alla fine sono troppo malati per sopravvivere”. In questo caso si dovrebbe dare “priorità a coloro che hanno maggiori probabilità di guarire”.
Pare che alcuni degli stati dagli USA avrebbero già dato delle indicazioni decidendo di destinare le apparecchiature prioritariamente alle persone che non presentano disabilità. Un recente articolo riporta che “nello Stato di Washington e in quelli di New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado e Oregon, i medici sono chiamati a valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale prima di intervenire, o meno, per salvare una vita”. Ad oggi sarebbero 36 gli stati ad aver definito quali priorità adottare. E alcuni di questi parlerebbero di “condizioni precise che possono portare alla discriminazione nei confronti dei disabili”.
Grande assente in questa bufera di problemi etici, morali, politici, geopolitici ed economici, è l’Unione Europea. Dopo un prima riunione dei Ministri della Salute a febbraio , e quella congiunta dei 56 Ministri della Salute e dell’Interno il 16 marzo, l’ultimo incontro, tenutosi nei giorni scorsi, si è concluso con un “niente di fatto”: l’ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che l’ “Unione” Europea è solo un’unione commerciale niente di più.
Intanto, il Parlamento Europeo, per far fronte al problema del corona-virus, ha stanziato la considerevole somma di poco più di 30 miliardi di Euro: spiccioli di fronte alle spese a 11 zeri che i singoli paesi dovranno affrontare nei prossimi mesi.
L’unica a fornire un contributo concreto per aiutare i cittadini europei di fronte all’epidemia in atto è stata la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen: nei giorni scorsi ha messo in rete un breve spot nel quale mostra personalmente come ci si lava le mani: una scelta quanto mai sbagliata. Anche sotto il profilo dell’immagine: c’è già chi l’ha definita la nuova Pilato…