Da giorni provo sgomento per i fatti afgani e sconcerto per la pochezza delle affermazioni occidentali che non mi soddisfano. Sorvolo sulla decisione di Biden di lasciare l’Afghanistan al suo destino – decisione che peraltro mi trova d’accordo perché dopo vent’anni un essere, che sia un individuo o una nazione composta da individui, deve poter camminare con le sue gambe – né posso giudicare le modalità di ritiro perché non ho mai lavorato al Pentagono. Mi voglio semmai soffermare sul perché nel mondo parliamo e non ci comprendiamo. Siamo così impegnati a raggiunger la vetta della torre di Babele, che buttiamo giù tutto ciò che ci ostacola la salita. Come se sulla vetta ci fosse Dio e noi, raggiungendolo, diventeremmo lui. Insomma, l’uomo vuole sempre prendere il posto della divinità e per questo è disposto a tutto.
Le religioni patriarcali hanno introdotto il primato del maschio, il quale, per ottenere sottomissione, ha richiesto come atto d’amore il sacrificio, ma era solo violenza mascherata. Questo processo è iniziato almeno cinquemila anni fa e ne siamo ancora invischiati. Il problema è culturale, non economico o tecnologico: siamo ancora dei primitivi nell’anima.
La prima cultura che l’uomo si è dato è stata la religione, le cui norme da rispettare riguardavano la sfera del sacro. Bisognava sacrificare agli dei i propri beni, se stessi, i propri figli. Invece il sacro era l’inviolabile, perché luogo della divinità, naturalmente separato dal mondo degli uomini.
La domanda è sempre la stessa: cosa siamo disposti a sacrificare per vivere bene? Anzi, confortevolmente, perché il bene è altra cosa. E se il sacrificio è violenza, ben si capisce come la donna si debba sacrificare per l’uomo, sia esso marito o figlio, perché egli simboleggia sempre il padre, Dio.
Noi occidentali che ci diciamo liberi, rispettosi dei diritti fondamentali dell’uomo, basiamo la nostra cultura religiosa e giuridica su questa ipocrisia biblica. Ma guardiamoci. Vendiamo le armi ai talebani, perché conviene. La donna sta sempre un passo indietro nel lavoro, nella famiglia, per non parlare nella Chiesa. Poi ci scandalizziamo se vediamo una musulmana avvolta in un sacco che cammina come un cammello dietro al suo padrone. Ci chiediamo perché non si ribella. E ci diamo la risposta: per paura della violenza. Ma la violenza viene introdotta con l’educazione dei figli, di solito impartita dalle madri tra le mura domestiche.
Le donne sono le prime nemiche di se stesse, siano esse cristiane o musulmane. Perché non insegnano il rispetto indistintamente verso il maschio o la femmina. Noi donne abbiamo ancora un’identità posticcia, che adottiamo per vivere, ma è solo un atto di sopravvivenza. Forse ad alcune fa pure comodo vivere così. Significa che non abbiamo coscienza, perché non abbiamo sentimento del sacro, nonostante l’indottrinamento religioso secolare.
Se la coscienza è conoscenza, la conoscenza non è sempre coscienza. L’anima è la sede della coscienza, l’hanno detto sia i greci che i padri della Chiesa. Si dice: ascolta la tua coscienza; chiediti se quello che vuoi fare sia giusto. Ma cosa succede se non senti quella voce interiore, la legge scritta del cuore? Come l’ha chiamata John Henry Newman, pensatore cristiano del XIX secolo che ha fatto della coscienza la ricerca della sua vita. In Coscienza, edito da Jaca Book, spiega che il cammino della coscienza è il cammino della conoscenza di Dio. Credo che molti pensino di incontrare Dio quando vanno in chiesa, ma non lo percepiscono dentro di sé. E se Dio rimane fuori, è solo sfoggio di esteriorità; non sentiamo il suo giudizio immanente, ritenendoci liberi di fare quel cavolo che ci pare. Non proveremo il senso di colpa, salvo poi scaricarla sugli altri se le cose andranno male.
Nelle religioni il senso di autorità ha prevalso e oscurato la fioca luce della coscienza. La differenza tra la nostra religione e quella coranica è che noi siamo figli dei greci e dei latini e abbiamo sempre indagato, mettendo il dubbio alla base delle nostre dissertazioni dottrinali; i musulmani accolgono l’interpretazione dell’autorità religiosa come verità rivelata senza discutere. Noi abbiamo libertà di coscienza, che la natura ci comunica attraverso i sentimenti della colpa e del rimorso, che implicano l’autocondanna. Significa che siamo responsabili di ciò che siamo e facciamo. Non è colpa del serpente. Non vale la scusa: “Il serpente mi ha ingannata ed io ho mangiato la mela”. Altrimenti non possiamo dirci libere, soprattutto noi donne.