“Ho avuto bisogno di 40 anni per trovare la forza della denuncia. Volevo rompere il silenzio di cui si nutre ogni forma di abuso; volevo ripartire da un atto di verità, scoprendo poi che con quest’atto offrivo un’opportunità anche a chi aveva abusato di me”.
Al summit sulla Protezione dei minori nella Chiesa, sono soprattutto voci di donna a squarciare con vigore quel velo di vergogna e dolore dietro cui le vittime di pedofilia sono state silenziate e screditate per un tempo lunghissimo, come quella di questa testimone, per cinque anni in balia del prete della sua parrocchia quando era poco più che una bambina.
Se quello voluto da papa Francesco potrà essere considerato o meno un evento epocale, potrà dirlo soltanto il tempo (che certo, lo si sa, quando si parla di Chiesa, ha il vizio di dilatarsi). Ma il summit appena concluso ha senz’altro il merito di aver riunito per la prima volta i vertici della Chiesa cattolica – in 190 tra cardinali e vescovi da tutto il mondo – vis-à-vis con le vittime di decenni d’insabbiamenti e con le loro raggelanti testimonianze, permettendo a donne e uomini, tanto chierici quanto laici, di farsi portavoce dell’urgenza di un cambiamento concreto. Una quattro giorni scandita da momenti di grande pathos, forse non sempre narrati con la necessaria dose d’approfondimento da parte dei media italiani, che si è dipanata intorno a un primo fil-rouge: il tema della colpa.
Dal racconto della colpevolizzazione subita per anni dalle vittime degli abusi, da cui è spesso scaturita anche l’auto colpevolizzazione delle stesse, al “mea culpa” inequivocabile pronunciato dal pontefice: “Confessiamo che vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi nella Chiesa hanno commesso violenze nei confronti di minori e di giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura – ha detto Bergoglio – Confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male. Confessiamo che non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario. Confessiamo che spesso noi vescovi non siamo stati all’altezza delle nostre responsabilità”.
Un’ammissione che non svela nulla di nuovo, ma che è imprescindibile per ripartire, spiega Francesco. La road map per ripensare una Chiesa “credibile e affidabile” si è articolata in 21 punti o spunti di riflessione, frutto delle richieste inviate al summit dalle conferenze episcopali di tutto il mondo. Tra questi, l’elaborazione di un vademecum pratico su come comportarsi di fronte all’emergenza di un caso di abuso e la creazione di strutture composte da esperti per l’ascolto delle presunte vittime.
Contro la negligenza dei vescovi, è stato proposto di affidare la vigilanza sul loro operato a corpi intermedi divisi per zone territoriali, sotto la responsabilità dei cosiddetti vescovi cosmopoliti, cui affiancare però una componente laica. Uno dei punti da cui muovere riguardava, infatti, il facilitare proprio la partecipazione di esperti laici nelle investigazioni e nei diversi gradi di giudizio dei processi canonici sugli abusi. Sul fronte denunce, i punti essenziali riguardavano l’attuazione di procedure condivise per l’esame delle accuse, la protezione delle vittime e il diritto alla difesa degli accusati. Su quello della prevenzione, una formazione iniziale e permanente dei seminaristi per consolidarne “la maturità umana, spirituale e psicosessuale, così come le loro relazioni interpersonali e i loro comportamenti”, nonché una loro valutazione psicologica da parte di esperti.
Altri temi all’attenzione dei 190 erano l’elevamento dell’età minima del matrimonio a 16 anni, per contrastare il fenomeno delle spose-bambine; l’istituzione di un organismo di facile accesso per le vittime che vogliono denunciare, autonomo rispetto all’autorità ecclesiastica locale; l’indicazione delle norme che regolano il trasferimento di preti, seminaristi e aspiranti religiosi in altre diocesi, seminari o congregazioni. Ancora, i percorsi di cura pastorale per le comunità ferite dagli abusi, con itinerari penitenziali e di recupero per i colpevoli. Tra gli spunti sul tavolo, anche una richiesta delle associazioni di vittime, “deliberare che i sacerdoti e i vescovi colpevoli di abuso sessuale su minori abbandonino il ministero pubblico”.
Al termine dei lavori, il pontefice ha però relazionato chiedendo alla Chiesa di concentrarsi su otto punti, in una lotta a più ampio respiro contro gli abusi che deve coinvolgere anche governi e componenti della società civile: la “tutela dei bambini” contro ogni abuso psicologico e fisico; la “serietà impeccabile”, nel compiere il necessario per consegnare alla giustizia chi commetta tali delitti; una “vera purificazione”, con un rinnovato impegno alla santità dei pastori; la formazione dei candidati al sacerdozio; l’esigenza dell’unità dei vescovi nell’applicare parametri che abbiano valore di norme e non solo di orientamenti; l’accompagnamento e l’ascolto delle persone abusate; il mondo digitale e le nuove forme di abusi, di cui si deve tener conto nella protezione dei minori, incoraggiando Paesi e autorità a limitare siti web che minacciano la dignità di uomini, donne e bambini e l’impegno affinché seminaristi e clero non diventino schiavi di dipendenze basate sullo sfruttamento criminale degli innocenti; il turismo sessuale, per il quale occorrono repressione giudiziaria ma anche progetti di reinserimento delle vittime.
Anche un solo caso d’abuso sarà punito severamente, ha assicurato papa Francesco nell’Angelus a chiusura del summit, parlando di “mostruosità” con cui Dio è stato “schiaffeggiato e tradito” da “disonesti consacrati” e che coinvolgono la società tutta. Tra le vittime e gli osservatori, a vertice concluso, serpeggia però una buona dose di delusione.
Di parole, certo, ne sono spese tante, e anche molto dure. A cominciare da quelle del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga e membro del C9 (il consiglio per la riforma della Curia voluto da Bergoglio) che ieri ha tuonato: “I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio”.“Non esistono alternative alla tracciabilità e alla trasparenza”, ha detto l’arcivescovo, toccando un punto su cui l’assemblea in questi giorni si sarebbe spaccata: il segreto pontificio. Se per Marx, infatti, non sussistono motivi convincenti per applicarlo al perseguimento di reati riguardanti gli abusi sui minori, non tutti i suoi colleghi la pensano allo stesso modo.
Senz’altro significativa la scelta d’invitare tre donne a tenere una relazione. Il Papa ha sottolineato come la Chiesa stessa vada pensata “con le categorie di una donna” dopo avere ascoltato l’intervento di Linda Ghisoni, sottosegretaria al Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, che ha chiesto a vescovi e cardinali di lavorare “affinché la prevenzione non si esaurisca in un bel programma, ma diventi atteggiamento pastorale ordinario”. D’impatto anche le parole di suor Veronica Openibo, superiora generale della Società del Santo Bambino Gesù, che ha ricordato l’esistenza di un fenomeno conosciuto da qualche anno, ma ancora in ombra: la violenza perpetrata da preti e religiosi sulle suore, specie in Africa. La chiesa sta facendo qualcosa, “ma non è ancora abbastanza”, ha aggiunto, indicando tra i problemi d’affrontare “l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere”.
Infine, l’intervento di Valentina Alazraki, vaticanista dell’emittente messicana Noticieros Televisa, seguito da un’ovazione in sala stampa. “Se siete contro quanti commettono abusi o li coprono – ha detto la reporter rivolta all’assemblea – allora stiamo dalla stessa parte. Possiamo essere alleati, non nemici. Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se non decidete in modo radicale di stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici”.
Ci si aspettava di più, dicono indignate le associazioni delle vittime. Tanto che il presidente della Rete l’Abuso definisce il vertice “un passo indietro”: “Molti vescovi dopo questi quattro giorni sarebbero dovuti uscire senza abito talare”, commenta. Rimangono aperti interrogativi e questioni tutt’altro che marginali.

Una su tutte il tema del celibato obbligatorio, non affrontato dal summit, e particolarmente sentito anche da una parte d’opinione pubblica, su cui lo stesso Bergoglio sarebbe tuttavia inamovibile. C’è il tema delle cosiddette lobby gay, in questi giorni rilanciato sulle colonne del New York Times con una lunga inchiesta che contiene anche testimonianze di preti omosessuali e che racconta come l’omosessualità sia stata molto spesso utilizzata come capro espiatorio degli abusi commessi all’interno della Chiesa cattolica. Tra le richieste che non hanno ancora trovato risposta, c’è poi l’obbligo giuridico – e non solo morale – da parte di vescovi e prelati a conoscenza degli abusi alle autorità civili del Paese dove questo avviene.
Intanto la lista delle accuse di abusi su minori non smette di allungarsi. Da quando Bergoglio è salito al soglio pontificio, nel 2013, in Vaticano sono arrivate 2.200 nuove denunce dai vescovadi sparsi per il mondo, scrive l’Espresso: in media, 1,2 casi al giorno. Denunce addirittura raddoppiate rispetto al quinquennio 2005-2009, quando sull’onda dello scandalo “Spotlight” sollevato dai giornalisti del Boston Globe, sfioravano una media di 200 all’anno. Non è dato sapere esattamente quanti sacerdoti abbia spretato papa Francesco nei primi sei anni di pontificato, ma stando a quanto scoperto dalla rivista, nel 2016 – su 143 casi presentati dall’ex Sant’Uffizio al Sommo pontefice – i prelati che Bergoglio ha dimesso dallo stato clericale risultano appena 16.
Seppure aprano un varco in un muro che fino a pochi anni fa sembrava pressoché invalicabile, i “mea culpa” e i punti elaborati al summit vanno dunque tradotti in azioni, e al più presto. Trascorso il tempo dell’indignazione e della penitenza, è bene che arrivi quello del buon esempio e della giustizia terrena. Possibilmente in anticipo rispetto a quella divina.