A un recente panel collegato al congresso annuale del NOVA (Italian MBA Association), che quest’anno si è tenuto a New York, uno dei partecipanti ha detto che tra gli ostacoli più importanti da superare per il mondo degli affari c’è il fatto che gli italiani e l’Italia non sanno raccontare ed evidenziare i loro successi, ma sono invece molto bravi a evidenziare difetti e insormontabili disastri. Insomma, come se l’Italia fosse un caso unico al mondo per tutto quello che si potrebbe fare e non si fa oppure di congenito immobilismo. Le grandi eccellenze (da non intendersi solo le grandi brands) vengono a volte schiacciate nel mare ultrasaturato di messaggi e soprattutto critiche, lamentele e parola magica, “individualismo.”
Però, ho pensato, interessante, come in un contesto di business, MBAs, Tech People, quello che emerge forte è un problema culturale. Avrei avuto voglia di fare tante domande e magari intrattenermi ad approfondire questa osservazione su cui ho naturalmente continuato a pensare. E dunque mi sono detta che quella osservazione mi confermava quello su cui dalla mia prospettiva di umanista avevo sempre riflettuto.
In un corso sulla cultura del Made in Italy che ho tenuto lo scorso semestre agli studenti undergraduate del Queens College, abbiamo letto tra le altre cose il libro di Marco Bettiol, Raccontare il Made in Italy. Un nuovo legame tra cultura e manifattura (di cui vi avevamo già parlato qualche tempo fa in questa stessa rubrica). L’autore si sofferma molto, e giustamente, a spiegare i valori materiali e immateriali del concetto del Made in Italy e a segnalare delle esperienze e business innovativi che possono offrirsi come modelli interessanti. Allo stesso tempo, l’autore considera i nessi tra i punti cardine del Made in Italy, quali artigianalità, design, personalizzazione e autenticità, come valori aggiunti quando si pensa all’Italia. Nella sua discussione sull’autenticità, si riferisce al testo ormai classico dello storico Eric Hobsbawn sull’invenzione della tradizione. E dice che per tradizione inventata si intende una serie di pratiche, di giudizi che sono “tacitamente accettati” e “dotati di una natura rituale o simbolica che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitivo nelle quali è autonomamente implicita la continuità con il passato” (Bettiol:45). Questo è tra l’altro un concetto che ben si associa a quello che Antonio Gramsci chiamava “senso comune” e lo legava intimamente ai processi culturali.
Devo dire che questa è stata una delle parti su cui i miei studenti hanno trovato più difficoltà e non solo linguistica ovviamente, ma più propriamente concettuale. Accettare l’idea che sia l’autenticità che la tradizione siano una creazione culturale e narrativa ha rappresentato uno degli ostacoli più grandi da superare. Perché poi quello che proponeva Bettiol, e che io condivido, è che partendo da questa consapevolezza è possibile ripensare, riscrivere e rivivere le nostre stesse radici culturali, la nostra storia, la nostra tradizione, il nostro passato. Qui sta anche la sfida a raccontare il Made in Italy in maniera nuova. Ma è proprio questo passaggio, questa rielaborazione e traduzione a garantire la costruzione di un ponte tra il passato e il presente, ma anche un ponte tra l’Italia e il mondo. La costruzione di questo ponte implica non solo il lavoro fisico e paziente di mettere una pietra sull’altra, ma soprattutto una nuova prospettiva culturale.
Ecco che ancora una volta e sempre appropriatamente torna la cultura. E qui vorrei ritornare all’episodio con cui ho iniziato e cioè che c’è qualcosa nel “carattere nazionale” degli italiani che probabilmente ha a che fare con questa incapacità a raccontare dei successi.
Vorrei menzionare un altro bel libro, quello della storica Silvana Patriarca (Italian Vices: Nation and Character from the Risorgimento to the Republic) che ha colto uno dei nessi importanti e di cui parlerò nella prossima puntata di questa rubrica. E cioè la sua analisi della creazione dell’idea che gli italiani siano un popolo contraddistinto da un forte individualismo, un tropo che la studiosa fa risalire all’Ottocento, ma in realtà ci sono molte tracce nella storia precedente come la stessa Patriarca considera.
Allora sorge una domanda, cosa significa e come possiamo capire il rapporto tra incapacità a raccontare dei successi e l’eccessivo individualismo degli italiani? Magari indagarne i nessi significa capire e anche interrogare le radici culturali e rendere visibili le cuciture di questo racconto, rimetterle in gioco con il presente e le nuove sfide. Costruire nuove parole per nuovi ponti. Anche su questo il business non può non confrontarsi con la cultura e con le humanities. Da qui riprendiamo la prossima volta.