Questa è la prima di una serie di riflessioni che appariranno in Fashionology sul made in Italy. New York fungerà da osservatorio nei confronti di un concetto complesso e dinamico che è stato così cruciale per capire l’identità italiana con il suo bene materiale e immateriale.
Negli ultimi anni, una delle parole più ricorrenti è proprio made in Italy. Recentemente il discorso sul made in Italy ha assunto le forme di un lamento causato dal fatto che diversi marchi italiani del lusso, e non solo quelli nella moda, sono stati acquistati da compagnie straniere, come Louis Vuitton. Eppure, invece di francesizzare i marchi italiani recentemente acquisiti, le compagnie francesi tendono a preservare e sottolineare l’italianità nelle sue molteplici manifestazioni, che per loro è un prezioso bene simbolico.
Il made in Italy, specialmente per gli stranieri, è un concetto che è stato spesso associato a significati che incontrano il desiderio per un gusto raffinato e di autenticità, e confermano l’idea profondamente radicata nell’immaginario degli stranieri dell’Italia come la terra della bellezza, dell’arte, di un artigianato fine e ricercato. Il made in Italy è anche diventato come uno spettro di un glorioso passato che sembra essersi perduto o di cui si è sprecata la potenzialità. In questo modo, il made in Italy sembra anche evocare il simbolo della decadenza e del fallimento di una nazione con un lato oscuro della storia fatto di governi instabili, di profonde crisi economiche e corruzione e che è stato soggetto a una giostra pazzesca di su e giù da un punto di vista politico ed economico.
Ma di fronte a tutto questo, sorge una domanda. In un’epoca di capitalismo globale e neoliberista, l’etichetta del made in Italy diventa obsoleta? A New York, uno dei centri chiave dei mercati globali e internazionali, ci si trova a osservare oggetti e iniziative sotto l’insegna del made in New York, o addirittura made in Brooklyn, la cui presenza testimonia come queste etichette portano con sé un senso di geografia locale, di economie creative, cose che soprattutto stanno a dimostrare la loro piena attualità e diffusione. Il made in Italy, nonostante le crisi e acquisizioni di compagnie non italiane, possiede ancora questa aura. Ad ogni modo, tende ora a produrre nostalgia per un tempo ormai andato. Ma queste sono fantasie e desideri che differiscono a seconda della gente, la loro classe sociale, età come anche le culture dei vari paesi in cui vivono. Infatti, per la maggior parte della gente che viene dall’estero, visita l’Italia, e ha una disponibilità economica medio alta, l’Italia è ancora recepita come il luogo del buon gusto, dello stile, dell’amicizia e calore umano. L’Italia ha infatti mantenuto questo alto livello grazie anche alla bellezza naturale del paesaggio, all’architettura e patrimonio artistico delle varie città. Del resto una Italia virtuale e ricostruita esiste nelle riproduzioni e fantasy land in luoghi come Las Vegas negli Stati Uniti dove si può fare una passeggiata in Piazza San Marco a Venezia o in gondola entrando nella shopping mall oppure visitare Roma, Fontana di Trevi e statue di imperatori romani. Le città italiane sono anche lo sfondo di un mondo di fantasia per una sorta di Disney World Italian style in Cina. Infatti nel 2011 si è inaugurato il primo villaggio Fiorenza che si è aperto vicino Pechino, seguito da un altro nel nuovo distretto di Pudong di Shanghai. Qui, una Italia in miniatura è stata ricostruita per accogliere negozi di marche prestigiose come Prada, Gucci, Ferragamo, Bottega Veneta e così via. In questo modo la nuova borghesia cinese e i turisti possono consumare un piccolo assaggio dell’Italia passeggiando vicino al Colosseo o al David di Donatello. L’Italia, la sua architettura, il cibo, la moda e le icone culturali sono trasformate in una favola del made in Italy vissuta come una esperienza sensoriale.
È interessante notare che il 2011 è stato anche l’ anno in cui la megabrand Prada ha lanciato il progetto con la sua collezione chiamata Made in…, fatta di abiti e accessori realizzati in varie parti del mondo. Le collezioni erano la dimostrazione di alto artigianato locale come il caso per esempio dei vestiti made in India che portavano i ricami Chikan tipici del luogo e della sua antica tradizione; oppure un kilt made in Scotland, o un maglione di Alpaca del Perù. Il prodotto in questione portava una etichetta tipica con Prada Milano e sotto, invece di made in Italy, si vedeva volta per volta made in India eccetera a seconda della provenienza dell’articolo. Sarebbe interessante esplorare ulteriormente questo progetto. Ad ogni modo per farlo sarebbe anche utile sottolineare alcune cose che hanno a che fare con le storie che popolano più che mai il mondo della moda e oltre.
Miuccia Prada al tempo del lancio aveva dichiarato: "Made in Italy? Ma chi se ne importa. Un marchio non è forte se poi deve difendere il proprio lavoro. (…) La mia è una dichiarazione politica. (…) Bisogna abbracciare il mondo se si vuole vivere nel presente". Così la storia dietro il suo Made in… è anche quella di sovvertire il fatto che a un marchio italiano del lusso, non si richiede necessariamente di produrre in Italia ma che può farlo all’estero. Allo stesso tempo, Prada difende la mondializazzione, abbracciando in pieno le migliori tradizioni del mondo per un artigianato di altissimo livello per i clienti viziati, come li chiama Suzy Menkes, che comprano Prada.
Questa comunque non è la fine delle storie. Ce n’è un’altra di storia interessante, ed è quella che ci dice come le marche italiane del lusso, compreso Prada, mantengono l’importanza della tradizione dell’artigianato italiano di qualità che ancora oggi si può identificare con le geografie locali come quella famosa del vetro veneziano oppure il velluto da tappezzeria fatto a mano di Genova e ancora tanti altri esempi. Una delle domande più pressanti che chiede Prada è: “Come può sopravvivere la storia a meno che non ci sia una maniera contemporanea per far capire questa storia ai giovani?”. Vuol dire forse che la moda, compreso le megabrand come la sua, può raccontare una storia tale da essere tramandata alle generazioni future? Ma un’altra questione rimane: come possono le nuove generazioni di designer e i membri della classe creativa contribuire attivamente alla costruzione di una nuova pedagogia/storiografia e know-how in modo da costruire dei ponti tra tradizione e tecnologia e ricerca scientifica. Vi è abbastanza spazio per queste giovani menti e mani per contribuire pienamente a ridisegnare la mappa dell’Italia?
Ma bisogna aggiungere ancora un altro livello in questo discorso. Questo forse ci porta a sbirciare ancora un’altra storia. Probabilmente il made in Italy non può solo essere letteralmente tradotto; oppure può solo rappresentare un lato di questa lunga storia prismatica, come un cristallo con tante facce. Le diverse traduzioni culturali ed economiche del termine devono essere esaminate nelle loro relazioni e contingenze per sciogliere i grovigli del passato e le sue implicazioni con la costruzione della nazione e cogliere così Iisuoi risvolti transnazionali. In altre parole, in questo e negli articoli che seguiranno mi piacerebbe aprire la nozione del made in Italy e renderla discorsiva. Rilevare alcune delle sue storie in un contesto globale, e attraverso esempi concreti di innovazione nel design e nel tessile poter offrire una narrativa che spossa pensarsi come alternativa a quella dominante della nostalgia per un passato glorioso, perso per sempre e impossibile da ricondurre al presente.