Niente di male nel leggere le attuali esegesi di e su Enzo Tortora e di quell’affaire di cui fu vittima e protagonista da parte di chi non c’era e tuttavia condisce il racconto con particolari come se fosse stato diretto testimone. Non è solo nel West (e non solo per quello che riguarda Liberty Valance) che vale la regola dell’editore dello Shinbone Star: “Dove la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. Accade un fatto strano (a ben vedere, non troppo strano). All’epoca, quando Tortora viene arrestato (quarant’anni fa) i colpevolisti senza tentennamento erano legioni. Ora trovarne uno che sia uno: tutti si proclamano e si dicono innocentisti della prima ora. Viene quasi voglia di recuperare le cronache dell’epoca, per ricavarne penosa e avvilente antologia dell’errore, degli orrori.
Se ci si dà pena (che di letterale pena, si tratta) di cercare su Internet le immagini delle televisioni che il 17 giugno del 1983 mostrano l`arresto di Enzo Tortora, le vedrete sgranate, scolorite dal tempo. Tuttavia continuano a impressionare. Sono immagini per quanti come me, che quei giorni li abbiamo vissuti in presa diretta, indimenticabili: come tatuate: quei polsi ammanettati, i carabinieri che lo scortano, lo sguardo attonito, incredulo di Tortora. Lo arrestano alle quattro del mattino. Lo trasferiscono in carcere solo alle undici: quando si è sicuri che giornalisti e telecamere sono in postazione, l`arresto eccellente diventa spettacolo…il primo di tanti. Tortora è accusato di essere un camorrista, uno spacciatore di cocaina. Lui e altre centinaia di persone, tantissime risulteranno poi innocenti, omonimie. Intanto però giorni, settimane di carcere.

Cercate ora la requisitoria del pubblico ministero Diego Marmo: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Non hanno cercato nulla. Anche un presunto numero di telefono su un`agendina di una donna legata a un camorrista, viene «composto» anni dopo; ma dalla difesa. All’altro filo del telefono non risponde Tortora, ma un irritato Tortona… Ancora oggi resta inspiegabile che si sia dato credito a personaggi come uno schizofrenico Giovanni Pandico; o Pasquale Barra, detto familiarmente o’animale: uccide altri detenuti e per spregio ne addenta le viscere come ha fatto con il gangster milanese Francis Turatello; oppure a un individuo come Gianni Melluso, nel suo ambiente soprannominato “cha cha” perché spacciatore di balle spaziali, come si può leggere in una sua biografia dove in un tripudio di falsità tira in ballo Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi, Roberto Calvi…
Tortora viene definito “cinico mercante di morte”. Sul suo conto, nessuna prova, nessun pedinamento, nessuna intercettazione telefonica, nessuna ispezione patrimoniale; nulla di nulla. Quando questo castello di menzogne si sgretola, uno si aspetta che qualcuno paghi. Ebbene, nessuno degli accusatori di Tortora ha pagato per i falsi e le calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Uno di loro finisce addirittura al Consiglio Superiore della Magistratura, eletto dai suoi colleghi. Per inciso: sarà uno di quelli che impiomba Giovanni Falcone quando presenta domanda per l’Ufficio Istruzione di Palermo. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le loro infamanti cronache.
Ora tutti indicano Tortora come simbolo della mala-giustizia. Quando lo arrestano si fu in pochi a dire che la cosa non stava in piedi; una decina: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Vittorio Feltri, Massimo Fini, Indro Montanelli, Gigi Moncalvo, Paolo Martini, Leonardo Sciascia, chi scrive… Tra i politici, il solo Marco Pannella, e con lui il Partito Radicale. Neppure il Partito Liberale, di cui Tortora era consigliere nazionale, ha il coraggio di fiatare…
Il bandolo di questa intricatissima matassa: una risata. Enzo Tortora depone la cornetta del telefono; ancora ripensa a quella strana comunicazione, è stanco dopo una pesante giornata di lavoro, la mezza pagina di un libro, poi la stanchezza lo vince. Si addormenta tranquillo, mentre pensa a quello che lo attende il giorno dopo: ogni volta anche se la formula è collaudata, una sorpresa che ti assorbe; ma lo fa con passione e divertimento… Alle quattro del mattino un frenetico bussare, voci concitate, uomini in divisa irrompono, gentili ma determinati. Il mondo che ti crolla addosso, nulla sarà più come prima.

All’inizio tutto sembra chiaro, perfino semplice: dei camorristi si “pentono” e raccontano i loro segreti, i delitti commessi e ordinati da loro e dai compari, gli “insospettabili” complici. Tra gli insospettabili c’è lui. Tortora ripensa a quella telefonata della sera prima, accolta con una risata. Il direttore de “Il Giorno” Guglielmo Zucconi, giornalista con mille relazioni, grande fiuto ed esperienza, ha avuto una “soffiata”: a Napoli preparano una grande retata, tra i convolti un grosso spettacolo della televisione. Come si chiama? La fonte gli dice che il cognome comincia con una delle ultime lettere dell’alfabeto; comincia la caccia: Ugo Tognazzi, Enzo Tortora, Raimondo Vianello… Zucconi incarica un suo cronista, Fabio Martini, che telefona a Tortora, quando è a Roma per il suo “Portobello”, alloggia all’hotel Plaza: “Gira una voce…”; Tortora replica appunto con una risata. Poi tranquillo va a dormire. Tutto sembra chiaro, all’inizio…
Troppo chiaro. Tortora è amato, ma anche detestato: la sua trasmissione è un fiore all’occhiello della Rai; ma zuccherosa, melensa, comunque troppo educata, non urlata; e che invidia, per quei milioni di telespettatori a ogni puntata… Che piacere, che soddisfazione vedere Tortora “incollato” a reati da far tremare le vene ai polsi: accusato di essere un “cumpariello” della camorra legata a Raffaele Cutolo; di essere un “cinico mercante di morte”, uno spacciatore di cocaina… Dopo, ma solo dopo, dopo “tanto dopo” si saprà che è stato arrestato per “pentito preso”; che non c’è ombra di prova, di indizio, non c’è nulla.

Leonardo Sciascia annota: “Quando l’opinione pubblica appare divisa su un qualche clamoroso caso giudiziario – divisa tra “innocentisti” e “colpevolisti” – in realtà la divisione è tanto sulla conoscenza degli elementi processuali a carico dell’imputato o a suo favore, quanto per impressioni di simpatia o antipatia. Ed è come uno scommettere su una partita di calcio o su una corsa di cavalli. Quello per settimane, mesi, è il cosiddetto “caso Tortora”.
Ancora oggi, quarant’anni dopo, resta inspiegabile come degli investigatori, dei magistrati, abbiano potuto dare credito a personaggi come Pandico o Barra, e tutti gli altri sedicenti “pentiti”. Ancora oggi resta inspiegabile che il Pubblico Ministero, nella sua requisitoria abbia potuto dire, senza ombra di incertezza: …Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”.
“Cercavamo”… Mai pedinato per coglierlo con le mani nel sacco, come pure sarebbe stato logico fare. Nessuna intercettazione telefonica nelle sue utenze. Nessuna ispezione patrimoniale e bancaria per cercare di individuare come e dove finiva il frutto del suo delinquere; neppure ci si dà pena di verificare a chi appartiene realmente il numero di telefono trovato nell’agendina di una convivente di un camorrista da quattro soldi.
“Cercavamo”… Chi ha cercato? Come ha cercato? Cosa ha trovato? A quarant’anni di distanza, sono interrogativi senza risposta. Tortora, esibito come “mostro” in realtà di una mostruosità è vittima; mostruosità che si può vedere subito, e proprio chi avrebbe dovuto e potuto vederla non la vede. Non vuole vederla. “Il caso Tortora”, annota Sciascia, “non sta soltanto nell’angosciosa vicenda che sta vivendo: è il caso del diritto, il caso della giustizia”.
Il punto lo coglie lo stesso Tortora, sostiene che il suo è “il caso Italia, il caso del diritto, il caso della giustizia”. Il diritto negato, la giustizia che non c’è, non vengono garantiti: nelle forme e nella sostanza. Di questa vicenda sappiamo molto, quasi tutto. Manca, tuttavia, a tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: «perché?».

Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.
Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per ‘riscattarlo’. Per lui si fa quello che non si volle fare per Aldo Moro.
Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la ‘stecca’. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un ‘ritorno’.
Il ‘ritorno’ si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Avessero dato un miliardo a ogni terremotato, sarebbero rimasti dei soldi. La ricostruzione è stata fatta solo in parte, e male; e il denaro è evaporato in mille rivoli. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora ‘brucia’.
A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta filtrare, anni fa, dalla Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati «pentiti a orologeria»; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. In questo contesto che nasce ‘il venerdì nero della camorra’, che in realtà si rivelerà il ‘venerdì nero della giustizia‘: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture.

A monito (e anche, perché no, ad allarme, simile a una campana che segnala l’arrivo di predoni), le parole scritte da Sciascia il 14 ottobre 1983, sul Corriere della Sera. Ssciascia dell’innocenza di Tortora è sicuro, ma al di là del caso specifico, lo difende “per difendere il nostro diritto, il diritto di ogni cittadino, a non essere privato della libertà e a non essere esposto al pubblico ludibrio senza convincenti prove della sua colpevolezza”.
Già questo sarebbe sufficiente. C’era però anche una più generale e specifica motivazione: “…L’amministrazione della giustizia, insomma, viene assumendo un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile – e con conseguenti punte di fanatismo. Elementi che hanno contribuito a questo stato d’animo, che ormai circola come sangue nel corpo della magistratura, a questa situazione di irresponsabilità, di privilegio, di refrattarietà e insofferenza ad ogni critica in cui pare la magistratura tenda ad arroccarsi, sono stati – a dirla sommariamente – questi: l’ordinamento di assoluta indipendenza che si è voluto – giustamente – dare al potere giudiziario e in cui però, di fatto, è insorta la dipendenza partitocratica; il vuoto che è venuto in sé promuovendo il potere esecutivo e che è stato come un invito (e una necessità) a che il potere giudiziario lo riempisse; la confusione in cui il potere legislativo si è abbattuto”.
È un discorso che vale anche per l’oggi, e si ha da temere, per almeno il prossimo futuro. Le parole di Sciascia sono “vive”. Tremendamente “vive”. Terribilmente, attuali e “vive”.