La cravatta è certamente un indumento scomodo. In verità non è neppure un indumento quanto piuttosto un ornamento, praticamente l’unico che l’uomo moderno si permetta. Proprio in quanto puramente ornamentale e in quanto scomoda, la cravatta ha assunto un certo significato simbolico: svolge in un qualche modo la funzione che il punto fermo ha in fondo a una frase – come il punto chiude la frase, così la cravatta perfeziona l’abbigliamento che senza di lei sarebbe incompleto.
Fino a non molto tempo fa, sull’ingresso di certe manifestazioni mondane si poteva leggere un avviso, “è di rigore l’abito scuro”, che invitava a rispettare la dimensione cerimoniale dell’evento, addirittura indossando una sorta di divisa, la “uniforme della correttezza”, come Thomas Mann definisce l’abito da sera, in verità simbolo di appartenenza a una specifica classe sociale e, proprio in quanto tale, investito dal vento della contestazione del Sessantotto.
Anche l’uso della cravatta va riferito all’idea di “correttezza”, ma solo in quanto la cravatta perfeziona l’abbigliamento: con la cravatta uno è “a posto”, non trasandato o casual, e manifesta così la propria attenzione verso il prossimo, ma anche il proprio rispetto nei confronti di eventi in cui interviene una autorità, rappresentata da un personaggio o determinata dalla situazione stessa.
Il rifiuto delle simbologie comporta, automaticamente, l’affermazione di simboli rovesciati: il mio abito è trasandato perché io non rispetto, al limite non riconosco, quella autorità, ossia rifiuto il significato rituale dell’evento al quale partecipo – si tratti di una cena come di una celebrazione alla presenza del Presidente della Repubblica. E il fatto che questo rifiuto sia, nella maggior parte dei casi, del tutto irriflesso e inconscio, la trasandatezza derivando semplicemente dal mio gusto o dalla mia comodità, non fa che allargarne il senso: non sono io a non riconoscere quella autorità – semplicemente quella autorità non esiste, o, addirittura, l’autorità non esiste.
Nonostante le apparenze, tale rifiuto del principio di autorità non è, in sé, niente affatto rivoluzionario: se l’autorità non esiste, non c’è nessuna autorità da rovesciare, ciò che comporterebbe istituirne di nuove. Il venir meno del rispetto verso le autorità deriva in buona parte da questo che coloro che le rappresentano hanno perduto autorevolezza, soprattutto a causa dell’incoerenza, quando non della contraddittorietà tra i principi professati, i valori sostenuti, e il modo di vivere e di comportarsi. D’altra parte non essere tenuti, non sentirsi tenuti, a rispettare l’autorità è comodo, così come è comodo non perfezionare l’abbigliamento con quello stupido ornamento che stringe il collo.
Il venir meno delle ritualità, del rispetto formale che esse comportano, determina l’appiattimento del significato e del valore dei singoli eventi e delle singole situazioni: tutto diventa banale.
Ci si è chiesti se, e fino a che punto, la liberazione sessuale abbia determinato, o per lo meno generalizzato la reificazione e la mercificazione del corpo femminile. Non c’è dubbio che tale liberazione è stata resa possibile da un pensiero diametralmente opposto, ma anche dal diffondersi delle pratiche anticoncezionali, che hanno eliminato il timore delle “conseguenze”. Comunque sia di ciò, rimane certo che le pratiche sessuali sono diventate anch’esse banali. Nel suo brutale realismo, la frase “fare sesso”, che ha sostituito il più prezioso “fare l’amore” (che nobilitava in qualche modo anche il lavoro delle prostitute), è indicativa appunto di tale banalizzazione.
Ora, ciò che è banale è certamente lecito. Per questo, forse, Hannah Arendt ha messo in guardia sulla “banalità del male”. Di più: ciò che è lecito fare, lo si può anche vendere. E comprare. “Perché no?” si sono certamente dette le ragazze di Arcore, usando un’espressione sempre più ricorrente.
Si è cercato con il lanternino un reato che potesse trasformare la banalità delle orgette in delitto e lo si è trovato nella minore età di Ruby. Una volta si diceva “corruzione di minorenne”, ma Ruby, certamente, non aveva nessun bisogno di venire corrotta. Un uomo politico, guardando un filmato con Ruby ospite d’onore al ballo delle debuttanti di Vienna, ha esclamato “E questa sarebbe la parte lesa?”. Non aveva tutti i torti.
In realtà è successo qualcosa di molto più grave: un’alta autorità, e quindi l’autorità stessa, si è totalmente spogliata della sua autorevolezza. Quindi non merita più rispetto. Se domani ci capitasse, per un qualche errore, di essere invitati a una cerimonia ufficiale presieduta dal Premier, potremmo presentarci senza la cravatta. Magari in short e maglietta, per fare concorrenza alle ninfette: perché no?
Ma, mi raccomando, quando andiamo a teatro o siamo invitati a cena da una signora da poco conosciuta, rimettiamoci la cravatta.