La she-cession, ossia la peculiare ripercussione della recessione nella sfera femminile, dilaga nel mondo. È quanto afferma l’ultimo rapporto del World Economic Forum in riferimento al gender gap. Per quanto l’Italia registri un balzo in avanti, guadagnando 13 posizioni e risalendo dal 76° al 63° posto su un panel di 156 Paesi al mondo, riguardo alla partecipazione economica rimane però agli ultimi posti della classifica europea e si stima che, se si continuerà di questo passo, saranno necessari 267,6 anni per sanare l’attuale divario di genere a livello globale. Tra basso tasso di occupazione, rischio di perdita del lavoro, elevata differenza salariale rispetto agli uomini e scarse possibilità di carriera, il report mette in guardia dal “rischio diseguaglianze”, accentuato a seguito della pandemia da Covid-19. Alessandra Minello, demografa sociale, ricercatrice in demografia al Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Padova, autrice di un importante contributo sulla rivista Nature intitolato “The pandemic and the femal Academy”, nel quale si chiede quali siano gli effetti del lockdown sul “muro materno” e se lo Smart Working abbia lo stesso peso per uomini e donne, condivide con La Voce di New York i risultati delle sue ricerche.
“Ho indagato a lungo la questione, non solo nel contesto italiano – spiega Alessandra Minello – e i dati dimostrano solidamente che il lavoro da remoto, insieme all’impossibilità di esternalizzare la cura e alla necessità di seguire la didattica online, ha gravato maggiormente sulle spalle delle donne. Anche la divisione degli spazi in casa è a loro sfavore: se c’è uno studio in casa, se ne impossessa l’uomo; le donne molto spesso si arrangiano a lavorare nei ritagli di spazio e di tempo, o di notte. Questo effetto si è avuto principalmente durante il primo lockdown. Direi che anche questo rientra nel “maternal wall”, ossia tutti gli ostacoli visibili e invisibili che rendono difficile per le donne conciliare vita lavorativa e vita familiare”.
Nelle tue ricerche ti occupi soprattutto di mamme nella carriera accademica. Quali sono attualmente i progetti che stai portando avanti?
“Al momento ho due progetti in piedi. Nel primo, denominato “SmartMama”, con Lidia Manzo dell’Università di Milano e Sara Martucci del Mercy College di New York, abbiamo intervistato 50 donne, tra professioniste e accademiche italiane e americane, madri di figli in età 0-5 anni, per sapere com’è cambiata la loro organizzazione del lavoro retribuito e di cura durante la pandemia. Sono emersi cambiamenti importanti nelle priorità, nell’organizzazione dei tempi, ma soprattutto molta stanchezza e preoccupazione per il futuro. Il secondo progetto, che porto avanti con Concetta Russo dell’Università Bicocca di Milano, è più focalizzato sulla scelta di diventare madri e su quanto la precarietà accademica giochi un ruolo sulla maternità, e su come la maternità renda meno competitive le madri perché, come in tutti gli altri gruppi sociali, anche tra le accademiche il lavoro di cura è sbilanciato a loro sfavore”.
Quali saranno le conseguenze a lungo termine della rivoluzione pandemica nella gestione della produttività e nel sistema dell’education?
“La pandemia ha colpito il lavoro femminile più di quanto abbia fatto col lavoro maschile. Interi settori in cui la partecipazione femminile è prevalente sono stati bloccati dalla pandemia: pensiamo al turismo. In generale questa pandemia ci dà l’occasione di ripensare il mondo del lavoro, in merito ad esempio all’opportunità di mantenere alcuni impegni in remoto. Focalizzarsi sul gruppo delle accademiche è efficace perché permette di quantificare il gap che si è creato durante la pandemia e dovuto alla cura. Le madri hanno lavorato meno alle loro ricerche, scritto meno articoli scientifici, creato un nuovo “buco” nella loro produttività, che molte hanno associato a quello del periodo di congedo di maternità. Ci saranno conseguenze per le carriere a lungo andare, soprattutto per quelle in cui la produttività individuale conta molto”.
In condizioni di forte gender gap, come in Italia, qual è la tua esperienza personale di mamma in carriera?
“Come tante altre accademiche, mi sono ritrovata a dover fare didattica chiusa in una stanza mentre mio figlio e suo padre giocavano in un’altra. In sottofondo si sentivano i loro giochi, una volta il bambino è comparso in video perché avevo lasciato per dimenticanza la porta aperta. Un’altra volta si è sentito suonare la tromba giocattolo! Nel mio caso ho dovuto anche lavorare la notte, o all’alba, e mi sono saltati i weekend. In generale, l’ho trovata una cosa poco salutare”.
Sei una donna che vanta una brillante carriera accademica. Cosa impedisce alle donne che ne abbiano le capacità e la preparazione di fare altrettanto?
“La mia carriera è ancora lunga. Come molte donne e uomini ambisco al tempo indeterminato, che in accademia si ottiene particolarmente tardi, nonostante il grande investimento in istruzione che si fa. Questo è uno degli aspetti cruciali: le carriere molto impegnative non danno ritorni immediati e spesso il periodo della maternità crea dei rallentamenti, implicando talvolta addirittura l’uscita dal mondo del lavoro. C’è da aggiungere che con il lavoro di cura sulle spalle delle donne, e un mondo del lavoro in cui i successi si misurano ancora in base agli straordinari, alla totale devozione, a orari di lavoro non flessibili, le possibilità di carriera per le donne diminuiscono. Spesso avviene poi che le donne, anche per cercare di conciliare i due ambiti, scelgono professioni in cui le possibilità di carriera sono ridotte. Questo tipo di scelta settorializzata rientra nella cosiddetta “segregazione orizzontale”, che insieme a tutti i meccanismi che ho citato, dà poi origine alla “segregazione verticale”, per cui ancora oggi ci sono poche donne ai vertici”.
Quali sono le discriminazioni o gli ostacoli che una donna può incontrare nella carriera lavorativa accademica?
“Ce ne sono molti, io rispondo dal punto di vista del legame tra lavoro e maternità. Il periodo stesso della maternità è cruciale: si smette per un periodo di produrre e in un lavoro che incentra le progressioni di carriera sulla produttività questo diventa particolarmente penalizzante. Le donne, e specialmente le madri, rimangono più a lungo nelle posizioni precarie. Inoltre, ci sono discriminazioni intrinseche al sistema: anche a parità di produttività, si tende a favorire gli uomini nei reclutamenti. È un ambiente ancora a prevalenza maschile, almeno nelle posizioni più elevate e pare una condizione che tende a perpetrarsi. Come tutti i lavori anche questo ha una forte componente legata alla capacità di fare network: gli uomini da questo punto di vista sono avvantaggiati: viaggiano di più, hanno quotidianamente più tempo da dedicare al lavoro e quindi si concedono anche del tempo per costruirsi reti”.
Nel tuo lavoro ti trovi a confrontare i dati internazionali. Puoi fare una breve panoramica su che cosa accade, in termini di parità di genere, nei vari Paesi europei?
“Si tende spesso a guardare ai paesi Nordici come esempio di parità. Di fatto lo sono, ma nemmeno lì la situazione è completamente risolta. Anche lì lavoro retribuito e lavoro di cura non sono parimenti divisi tra uomini e donne, e anche lì le donne non ricoprono le cariche apicali quanto gli uomini. Eppure, ormai ovunque le donne sono maggiormente istruite rispetto agli uomini. Per i paesi del Sud Europa, con l’Italia capofila insieme alla Grecia, la situazione è particolarmente sbilanciata. Qualcosa si è fatto, ad esempio, per aumentare la partecipazione femminile in politica, ma i dati, in generale, ci dicono che ancora non si è fatto abbastanza e che la completa parità non è stata raggiunta in nessun luogo”.
Spesso si individuano gli stereotipi di genere come principale causa di questi gap. Cosa possono fare le donne per sottrarsi a questa trappola?
“Uno dei punti su cui mi piace insistere è che più che chiederci cosa debbano fare le donne, dobbiamo chiederci cosa possa fare la società, donne e uomini insieme. Ancora oggi gli stereotipi sono forti. I dati Eurobarometro 2014-2017 ci dicono che il 51% del campione di italiani/e pensa che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia. L’indagine WeWorld 2018 mostra che il 32% dei/delle residenti nelle periferie italiane ritiene che l’autorealizzazione di una donna passi per l’avere dei figli (“La maternità è l’unica esperienza che consente ad una donna di realizzarsi completamente”). Quello che dobbiamo fare è agire insieme perché questi stereotipi vengano superati. Di sicuro possono fare molto, ad esempio, le e i role model: offrire modelli alternativi che in qualche modo smontino l’ideale del femminile e del maschile che ancora guida la percezione comune”.
Secondo i report delle Nazioni Unite, nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Hanno inoltre meno possibilità di occupazione e stipendi inferiori. Quali politiche possono essere messe in campo in questo senso da parte dello Stato?
“Servono delle riforme strutturali. Va incentivata la fruizione del congedo parentale da parte degli uomini, che è scarsa e ancora fortemente stigmatizzata. Vanno incrementati i servizi di cura ai bambini sin dall’infanzia a prezzi accessibili, che favoriscano la conciliazione lavoro-famiglia. Ancora non viene coperto il fabbisogno reale. Inoltre, è necessario incentivare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, anche a la-vori che portano a posizioni apicali. Sono le donne in questi ruoli che avranno in fu-turo una maggior sensibilità per cambiare le cose”.