Il problema non è se Greta Thunberg ci sia simpatica o antipatica; e neppure se lei ci “marci”, ci guadagni, sia diventata fonte che macina denaro, se dietro o sopra o fianco a lei ci siano genitori avidi, cinici, pronti a strumentalizzare e fare d’ogni respiro e vagito della ragazza moneta e “roba”.
Se è così, e si dia per scontato che lo sia, vuole dire che comunque c’è un terreno che si “semina”. La “semina” può essere detestabile, e la semenza perfino ignobile. Il problema è che c’è un terreno. E’ del “terreno” di cui ci si dovrebbe occupare. Senza il “terreno”, finisce la “semina”.
Il “terreno” c’è, purtroppo.
Il “terreno” sono alcuni dati, incontrovertibili: secondo le Nazioni Unite, nel 2018 ci sono stati 17,2 milioni di persone costrette a spostarsi dai loro luoghi di residenza, a causa dei disastri ambientali che hanno colpito 148 paesi.
Il “terreno” è una siccità che nel 2018 costringe alla fuga 764 mila persone, soprattutto i Somalia e in Afghanistan.
Il “terreno” è un rapporto Oxfam, secondo il quale, negli ultimi dieci anni le migrazioni forzate dal clima sono aumentate di cinque volte, e prodotto uno sfollato ogni due secondi.
Il “terreno” sono qualcosa come 50-200 milioni di persone che entro il 2050 dovranno fuggire dalle città costiere.
Il “terreno” sono qualcosa come 180 centimetri di innalzamento dei livelli dei mari entro la fine del secolo.
Il “terreno” sono il 28 per cento i più di richieste di asilo nell’Unione Europea, a causa dei cambiamenti climatici.

Il “terreno” è costituito dal fatto che entro 10 anni l’acqua divorerà una località della Louisiana, chiamata Isle de Jean Charles; apprendo che un tempo ci vivevano cinquecento persone, ora sono una sessantina; culture che marciscono causa acqua salata che si infiltra, animali che fuggono. Gli abitanti appartengono a una tribù di nativi, i Biloxi-Chitimacha-Choctaw, i primi statunitensi a essere riconosciuti come rifugiati climatici; stanziati per ora 50 milioni di dollari (federali) per spostare questa piccola comunità; e vorrà dire qualcosa in un paese il cui presidente nega un’influenza e un impatto delle mutazioni climatiche.
Il “terreno” è costituito da una preoccupata stima dell’Istitute for Environment and Human Security dell’ONU: ci avverte che le isole Kiribati, nel mezzo del Pacifico e gli insediamenti artici sono destinati a essere sommersi.
Il “terreno”, per restare in Louisiana è che le coste di questo Stato vengono erose dal mare al ritmo di un campo di foot-ball ogni ora che passa.
Il “terreno” è costituito dall’allarme di Matthew Hauer, demografo e docente alla Florida State University:
“Non esiste uno stato degli Stati Uniti che non sia colpito dal global warning. Per alcune popolazioni esistono percorsi migratori già segnati: gli abitanti del sud della Florida si ritireranno i Georgia; quelli di New York in Colorado. La Grande Migrazione, tra gli anni ’20 e i ’70 ha visto un flusso dal Sud del Paese verso il Nord industrializzato; questa migrazione coinvolgerà tutti gli insediamenti sulle coste e tutte le città lontane dal mare”.
Se i calcoli di Hauer sono esatti, disastri ambientali a parte, entro la fine del secolo ci sarà uno spostamento forzato di 13 milioni di americani, sei dei quali della sola Florida. Noi probabilmente non avremo occasione di vedere tutto ciò; qualche nostro figlio invece sì.
Il “terreno” è costituito dal fatto che si prevede che entro qualche decina d’anni le coste degli Stati Uniti saranno “vittime” costanti di inondazioni, perché il mare si innalzerà di circa 150 centimetri, che sembra nulla, ma è una cosa enorme; e lo si deve al riscaldamento degli oceani e allo scioglimento dei ghiacci.
Il “terreno” è costituito da un rapporto dell’Agenzia Nazionale Energie Alternative (ENEA) secondo il quale nella sola Italia circa 5.600 chilometri quadrati di zone costiere rischiano di essere inghiottite nei prossimi ottant’anni: se la temperatura globale aumenterà di tre gradi, ci sarà un potenziale di circa un milione di sfollati. Diciamo che avremo una quantità di casi come quello dell’acqua alta a Venezia: per tre volte la marea ha raggiunto i 150 centimetri, mai accaduto a memoria d’uomo.
Il “terreno” è costituito da quello che dichiara Michael Mann, direttore dell’Earth System Science Center della Pennsylvania State University: “E’ concepibile che gran parte dell’Australia diventi inospitale e inadatta per gli esseri umani”; e quello che può accadere lo si è visto: per settimane mostruosi incendi che hanno devastato il continente, ucciso una trentina di persone, fatto scempio di milioni di animali, distrutto foreste e terre coltivate.
Il “terreno” è costituito da un rapporto Oxfam, secondo il quale i disastri ambientali sono la causa numero uno della migrazione forzata, e producono uno sfollato ogni due secondi, e in particolare in Asia. Dina Ionesco, capo del Migration Environment and Climate Change dell’ONU spiega che prove ed evidenze scientifiche frutto di un lavoro decennale, dimostrano che il “global warning, direttamente o indirettamente, è responsabile delle grandi migrazioni umane”.
Detto questo, va bene: Greta Thunberg è antipatica; ci “marcia”; ci guadagna; lei e la sua famiglia e tutta la corte dei miracoli che ruota intorno, ci speculano; sono avidi, cinici, pronti a strumentalizzare la questione ambientale. Va bene: Greta è il dito sporco, l’unghia orlata di nero. Ma quello che indica quel dito, è vero o no? Di Greta freghiamocene, mandiamola pure al diavolo. Ma, sommessamente, la carne del problema non è l’antipatia o l’avidità di Greta, piuttosto l’impazzimento del clima di cui siamo noi (e non lei) responsabili. O no?