Molti hanno scritto e scrivono dell’importanza della Maratona di New York, uno degli appuntamenti sportivi più iconici e emozionanti dell’anno. 42km attraverso gli eclettici quartieri della Grande Mela, con partenza dal Ponte di Verrazano a Staten Island, attraverso le strade di Brooklyn, Queens, Manhattan, il Bronx, per finire a Central Park.
Anche quest’anno si sono ritrovati più di 50.000 atleti provenienti da decine di paesi diversi, tra professionisti e non, su due gambe o una, con un costume di indiana o Wonder Woman o con un completo nero dei Blue Brothers, con scritte multicolori in tutte le lingue del mondo, tutti con universi di motivi diversamente fondamentali per partecipare. Ed in questa umanità luminosa, interessante, incoraggiante, motivante, rassicurante, quest’anno c’ero anche io, una non professional runner, ma una amante della corsa che a 50 anni ha deciso di correre la sua prima maratona.

Dopo mesi di preparazione, a volte seria e a volte un po’ meno, ho partecipato ad un’impresa che, una volta mi sembrava appartenere ad un altro universo, quello dei forti atleti, quello in cui solo se sei preparato e lo fai da anni, allora ti ci puoi cimentare.
Ho partecipato e ho finito la maratona ( i miei primi lunghi 42 KM di corsa) vivendo in un universo parallelo, un universo tutto mio dove ho osservato i colori della moltitudine delle persone che mi correvano accanto, ho ascoltato i suoni o i frastuoni delle migliaia di persone accorse a sollecitare i corridori, la musica dei gruppi specchio del quartiere: Blues, un po’ di Jazz, un po’ di Rock.
Sono accorsi in migliaia per guardarci e allora, già al chilometro 5, cominci a pensare perché sei lì, perché corri nonostante il ginocchio cominci a non reggerti. Inizia così il tuo viaggio parallelo fatto di piccoli episodi alla “Madeline” di Proust, durante i quali ti sovvieni di quell’incontro con una persona speciale, un riconoscimento non avuto, un dolore sofferto e poi recuperato, un amico che sta attraversando un brutto momento, e tutti gli altri odori, suoni, ed immagini che ti accompagnano mentre macini chilometri.
E mentre la tua mente si organizza, si riassetta nelle sue immaginarie stanze dell’io, tu ti guardi attorno e leggi i nomi delle strade a Brooklyn, ti sovvieni di un famoso ristorante a Long Island vicino al ponte di Queensborough che stai attraversando, ti emozioni e senti il battito del tuo cuore accelerare perché’ sei arrivata al chilometro 30, a Manhattan, dove sai che i tuoi figli e tuo marito ti stanno aspettando. Corri lungo la First Avenue come in un sogno, sai che la fatica che avverti alla gamba, fa solo parte del premio finale, l’arrivo a cui tu stai agognando da ore ormai.
Osservi i numeri delle strade che si susseguono e senti solo gli incitamenti entusiasmanti di gente sconosciuta che grida il tuo nome e di incoraggia: “Vai Elda” “Vai…hai attraversato Brooklyn, Queens” sei a metà percorso “Ce la Fai” “Credi in te”. Per magia, le gambe sembrano sollevarsi, avverti un impeto di euforia, di orgoglio e ti dici “ce la devo fare”. E mentre lo penso sono arrivata alla mia prima destinazione, la famiglia e il mio cuore cede. Le lacrime scorrono come un fiume in piena, i miei tre figli mi abbracciano stupiti e un po’ disorientati perché’ non giustificano il torrente di lacrime. “Mamma stai bene? “ “Ti fa male il ginocchio?” Io riesco solo a guardali con amore infinito e prometto che finirò la corsa perché nella vita non bisogna mai lasciarsi andare o lasciarsi abbattere .
Mi viene in mente un passo del libro di Chiara Marchelli New York, Una città di corsa, quando scrive che “la corsa ti insegna a stare… e correre sulla gioia, la pace, la quiete , l’armonia di una vita che cerco sempre di tenere d’occhio, perché non sfugga mentre mi distraggo e si vada a far vivere da qualcun altro. Correre insegna anche questo: a stare”.
E allora quando saluto la mia famiglia e proseguo per gli ultimi 12 km che mi separano dal traguardo a Central Park, penso soltanto a “stare”: a stare con la gente che mi incita, con le amiche che incrocio e abbraccio, a stare con il dolore lancinante al ginocchio, a stare con i ritmi musicali che mi accolgono nel Bronx e poi ad Harlem, a stare sulla Fifth Avenue che percorro come un automa ormai, a stare con i volti sorridenti, stanchi ma felici dei corridori che come me stanno assaporando il momento finale. Il tratto della 57ma strada che ti porta lentamente verso la fine sembra un disegno strano della prospettiva medievale: ti sembra profondo, lungo, ma in realtà non lo è, ma a te sempre un tunnel senza luce.
Forse è breve, ma la tua mente è troppo stanca per seguire un percorso logico e il dolore alla gamba sembra sollevarti come sul tappeto magico di Aladino.

Finalmente le luci dell’arrivo sono lì che brillano, che ti sorreggono e allora puoi finalmente dire “ho fatto la mia prima maratona a 50 anni” e ne sono fiera.
Non lo hai fatto per la medaglia che ti danno con un grande sorriso, per il poncho che ti mettono sulle spalle perché tremi dal freddo: lo hai fatto per dire “quest’anno alla Maratona di New York, io c’ero”.
Il 2020 è già prenotato.