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September 16, 2019
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Perché la società deve curarsi dei suoi anziani

Oggi, il numero degli anziani è in continuo aumento, ma l'uscita dal mondo lavorativo può significare per molti isolamento e senso di inutilità

Manuela RandazzobyManuela Randazzo
Perché la società deve curarsi dei suoi anziani

Foto di Francesco Scalzo (da https://www.instagram.com/_france_sco/).

Time: 5 mins read
Foto di Francesco Scalzo (da https://www.instagram.com/_france_sco/).

Nello sviluppo della persona la tappa dell’invecchiamento e della terza età è quella finale. Nelle società antiche la figura dell’anziano aveva una notevole importanza per il suo ruolo sociale e culturale, tanto che gli veniva riservato il posto più elevato della scala sociale e politica.
L’anziano era dotato di grande conoscenza ed era in grado, grazie alle sue esperienze di vita, di fornire consigli ai più giovani membri della comunità.
Diventare anziani significava raggiungere un traguardo, sia perché la maggioranza della popolazione non riusciva a superare i cinquanta anni di età, sia per il rispetto e la considerazione loro riconosciuti.

Nella società odierna il numero degli anziani è in continuo aumento grazie ad un miglioramento delle condizioni di vita. La popolazione italiana vive molto a lungo: la speranza di vita alla nascita è di 83,1 anni. Nel mondo, oltre alla Spagna, ci supera solo il Giappone, con un’aspettativa di vita di 84 anni.  Come noto, le donne hanno un’aspettativa di vita più lunga degli uomini. In Italia, ad esempio, la speranza di vita alla nascita per le donne è di 85,2 anni, contro gli 80,8 degli uomini. In compenso, gli uomini italiani sono quelli che vivono più a lungo in Europa, dieci anni in più degli uomini di molti paesi dell’est. A livello regionale l’aspettativa di vita è ovunque oltre gli 81 anni. È più alta nella provincia di Trento (84,4), seguita dalla provincia di Bolzano, Veneto e Umbria, Lombardia, Toscana. Le regioni del sud presentano invece i dati più bassi: 81,3 anni in Campania, preceduta da Sicilia, Calabria e Basilicata. Conseguenza di una vita media molto lunga, unita ad un tasso di fecondità molto basso, è quindi che in Italia ci sono molti anziani: la popolazione anziana (da convenzione gli over 65) rappresenta il 22,3% della popolazione, contro una media europea del 19,4%.

Con il passaggio all’attuale era post-industriale l’immagine sociale dell’anziano, il suo ruolo all’interno della società e della famiglia, si sono modificati in modo sostanziale. Nella cultura della organizzazione sociale odierna, infatti, l’identità e il ruolo sociale della persona coincidono con la produttività e l’attività lavorativa. L’inizio della vecchiaia viene sancito dal pensionamento e dalla perdita dello status sociale connesso al ruolo di lavoratore e uscire dall’ambiente lavorativo può significare, per molti, essere fuori dal mondo: diminuiscono le possibilità di contatto umano e di relazione, vengono meno, progressivamente, gli incontri con i compagni di lavoro, con gli amici ancora produttivi.

Allontanarsi dal lavoro può significare anche perdere la necessità di doversi continuamente occupare degli avvenimenti futuri, perdere, in altri termini, l’atteggiamento “aggressivo” verso il presente e costruttivo verso il futuro. Tale passaggio induce molto spesso vissuti di inutilità, di vuoto, di mancanza di prospettive e di risorse, cui non sempre l’anziano è in grado di contrapporre nuovi obiettivi e interessi.

Foto di Francesco Scalzo

Al pensionamento si collegano spesso difficoltà economiche che incidono negativamente sulla qualità di vita dell’anziano e sul suo equilibrio psicologico messo in difficoltà dall’ambivalenza dell’ ambiente, che gli richiede, da una parte, un aspetto giovanile, prestanza e autonomia, dall’altra, critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo culturale della vecchiaia. Anche la struttura attuale della famiglia non sempre aiuta l’anziano a superare il disagio indotto dal pensionamento; le differenze di età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della moralità, della religione. A livello socio-culturale la squalifica dell’anziano vissuto come un peso, come un individuo che non ha più nulla da dare, soprattutto quando non è più in grado di gestirsi in maniera autonoma, risulta evidente se si considera che la quasi totalità degli interventi rivolti agli anziani sono di tipo socio-assistenziale e relegano pertanto l’anziano in un ruolo di passività e di dipendenza. L’anziano resta, in poche parole, una risorsa utile quanto, o con i propri redditi, o con le proprie energie, è utile all’economia familiare. Superata la soglia della sua utilità, in molti casi viene scaricato con decisione e cinismo.

Di qui la necessità di pensare a programmi di interventi di recupero dell’anziano, che deve essere collocato in una visione personalista: perché egli è una persona e la persona è un valore in sé – a qualunque età ed in qualunque condizione – e come tale va rispettata, promossa, riconosciuta e fatta essere soggetto di vita, attività, cultura, in una società di persone solidali. Si dovrebbe favorire l’attuazione di programmi di educazione, perché il modo migliore per rimuovere e prevenire tanti dei problemi della vecchiaia è quello di pensarci per tempo, promuovendo una prospettiva educativa di “preparazione alla senilità” intrapresa fin da giovani e da adulti.

Ci sono strategie, al giorno d’oggi, molto utilizzate, che permettono di restituire agli anziani un ruolo attivo nella società. La Commissione della comunità europea, nel suo trattato Verso un’Europa di tutte le età, ci fa capire come “gli anziani siano già molto attivi nell’ambito delle organizzazioni non governative”, soprattutto in attività volontaristiche (ad esempio i “nonni vigili”), che sono vantaggiose per l’anziano in quanto torna ad assumere un ruolo sociale significativo e acquisire nuovi stimoli fisici e mentali, oltre ad ottenere un sentimento di soddisfazione e realizzazione personale.

Esiste poi la figura del caregiver, ovvero colui o colei che si prende cura, a titolo non professionale e gratuito, di una persona cara affetta da malattia cronica, disabile o con un qualsiasi altro bisogno di assistenza a lungo termine e in questa definizione sono inclusi anche gli anziani. La figura del caregiver, o caregiver familiare, è sempre più di centrale importanza, soprattutto nei paesi industrializzati, proprio a causa dell’aumento della popolazione anziana e della riduzione della mortalità, dovuta ai progressi in campo medico e diagnostico.

Non esiste un dato ufficiale su quanti siano i caregiver in Italia. Si tratta di un lavoro volontario, non retribuito e non inquadrato – ad eccezione dell’Emilia Romagna – in alcuna legge che garantisca diritti e doveri. Secondo un’indagine ISTAT in Italia sarebbero addirittura 8,5 milioni i caregiver, di cui 7,3 milioni caregiver familiari. Di questi sono 2.146.000 coloro i quali dichiarano un impegno assistenziale superiore alle 20 ore settimanali. La stessa Istat aveva stimato in 3.329.000 le persone che, nel contesto familiare, si prendono cura regolarmente di anziani, di malati e di persone disabili. Si tratta prevalentemente di donne (74%), di cui il 31% di età inferiore a 45 anni, il 38% di età compresa tra 46 e 60, il 18% tra 61 e 70 e ben il 13% oltre i 70. Diverse ricerche realizzate su gruppi specifici di caregiver in Italia concordano su alcune tendenze: sono soprattutto donne, per la maggioranza non occupate e con un livello di scolarizzazione medio-basso.

Foto Francesco Scalzo

La società deve rendersi conto che il soggetto anziano è un patrimonio vivente di esperienze vissute e provate, di saggezza trasmissibile, di valori e come tale deve essere portato a comprendere il presente, educato ad “accettare” la propria condizione e ad accettarsi in essa, a fare buon uso della sua “età”. La vecchiaia deve essere sinonimo di serenità e coscienza di sé, accettazione di sé per quello che attiene alle relazioni sociali, alle prestazioni fisiche e mentali, al proprio stato di anzianità.

Certo vi è anche un problema di conflitto “generazionale” che deve essere risolto, affinchè la società attuale, orientata sempre più verso criteri di efficientismo produttivistico e di giovanilismo, non consideri gli anziani come non funzionali al proprio sistema in quanto non produttivi ed emarginandoli di conseguenza, ma come parte attiva della società. Su questo gioca un valido supporto la famiglia, l’ambiente sociale, le relazioni di amicizia, tutto ciò che serve a svolgere un’efficace e consapevole integrazione sociale che possa favorire un buon invecchiamento.

D’altra parte, i giovani di oggi sono gli anziani del futuro.

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Manuela Randazzo

Manuela Randazzo

Nata a Palermo nel 1984, laureata in Archeologia e Storia Antica, è insegnante di Lettere. Appassionata d'arte, storia, archeologia e viaggi, lavora come Guida Turistica nella regione Sicilia.

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