I social network dividono, il dibattito è sempre aperto. C’è chi non li ritiene necessari come mio padre, che preferisce l’isolamento e si tiene ben stretto un vecchio, fedelissimo Nokia per essere reperibile e nulla più e altri, come me, per cui sono indispensabili.
Quando creai il mio primo account social, ormai sei anni e mezzo fa, Twitter era un’oasi di pace. Gli utenti più brillanti sarebbero diventati presto twitstar, quindi inarrivabili e costretti a sfornare tweet accattivanti con cadenza giornaliera, ma allora interagire con loro era facile perché gli iscritti italiani attivi erano relativamente pochi e le conversazioni scorrevano fluide. I selfie erano rari.
Io avevo un Blackberry antidiluviano; le fotocamere anteriori c’erano, ma gli iPhone erano molto più rudimentali dei modelli di oggi. I pochi politici iscritti twittavano raramente. Ricordo quei mesi di tranquillità con una certa nostalgia.
Il mio account di Facebook non è affollatissimo. Nella mia cerchia virtuale non ho più di mille e cento, mille e duecento tra amici, colleghi, scrittori e artisti. Appena sveglia, il tempo di un caffè per riattivare la mente, controllo quanto è successo nelle ultime ore e Facebook mi agevola il compito, fungendo da aggregatore di notizie.
Quando un profilo già supera qualche centinaio di contatti, però, la timeline diventa una babele e districarsi può far perdere tempo prezioso. Anni di gavetta social mi hanno insegnato a scremare i contenuti convogliando lo spam in canali secondari, così da poter visualizzare soltanto i post più interessanti ed essere sempre aggiornata senza dover scovare i migliori editoriali tra i test di personalità e gli aforismi apocrifi di Alda Merini degli amici più sfaccendati.
Ho imparato infatti a creare liste dove dirottare gli utenti molesti, il capolinea dei loro vaniloqui mondialisti, pentastellati o salvinisti: un parcheggio per meme, fake news e bufale. Un’unica lista anzi, ma straordinariamente folta e quasi del tutto italiana, esilio virtuale di lontani zii perennemente indignati, giornalisti di bassa lega e amicizie sbiadite dei tempi delle scuole medie. La controllo ogni due o tre giorni e lascio un like ai post più costruttivi.
Preferisco una timeline pulita, non sono più una liceale; per lavoro devo essere informata e per diletto preferisco i post di musicisti inglesi e americani, amici o amici di amici, che mi aiutano a tenere la mente allenata in un’altra lingua e a scoprire nuove band.
Facebook è anche una vetrina per i nostri hobby e le nostre attività. Rapidamente sta eclissando piattaforme come Linkedin, Tumblr, in parte anche Youtube. In pochi click video, selfie e post pubblici raggiungono grande visibilità. Ma è diventato una giungla.
Non colgo il senso, lo confesso, di pubblicare fotografie brutte. Intendo quelle inutili, gratuite: spezzatini malamente impiattati in trattorie della Val Brembana, panorami in controluce, spiagge non memorabili dell’Adriatico. Perché?
La mia vita non è certo da influencer e spesso non ho nulla da fotografare. In quel caso preferisco tacere: nessuno sentirà la mia mancanza per ventiquattro ore. Non vorrei mai appesantire le bacheche degli amici con gatti randagi zoomati nel cortile di casa, code al casello di Limena e primi piani di sneakers infangate. Nessuno li troverebbe interessanti e i pochi like arriverebbero per noia o pietà. Non potrei biasimarli. Non trovo seducente consegnarmi al voyeurismo imperante che ci vuole geolocalizzati anche nelle toilette degli autogrill.
Pubblico moderatamente e soltanto quel che mi sembra rilevante. Preferisco il piatto colorato di un bistrot sperimentale, il tramonto di una spiaggia deserta in Indonesia, un autoscatto ben riuscito. Il bello, insomma, che provo a ricercare in ogni cosa così che chi legge i miei post possa trarne beneficio o ispirazione.
Invece Facebook, perlomeno negli ultimi tempi – e soprattutto nei mesi di ferie estive –, è diventato un calderone di piedi sudati e ascelle pezzate, pance straripanti e parmigiane sotto l’ombrellone. Le fotocamere dei nostri smartphone hanno generato mostri, rendendoci reporter costanti delle nostre vite. Vite che però, nei dettagli più trascurabili, non interessano gli sconosciuti.
Facebook è una piattaforma intelligente e non distrae soltanto se usata bene. Il mio approdo alla Voce di New York fu del tutto casuale: un conoscente italiano condivise l’articolo di un’amica giornalista in bacheca. Mi informai, mi convinsi che faceva al caso mio e inviai curriculum e pezzo di prova al direttore. A Stefano piacque ed entrai nel team.
I social network ci danno molto: ci tengono aggiornati anche a diecimila chilometri da casa, denunciano il malcostume, aiutano a trovare lavoro. Al tempo stesso ci impoveriscono, perché le nuove generazioni faticano sempre più a concentrarsi sui libri. Io stessa ho dovuto disattivare le notifiche di molte app per impedire che il mio iPhone vibrasse ogni pochi secondi.
Postiamo poco, dunque, postiamo il necessario. Condividiamo un’editoriale del New Yorker, l’incipit di un romanzo che abbiamo amato e che vorremmo far conoscere, un panorama inedito e dai colori così belli che tenerlo per noi sarebbe un delitto. Tralasciamo cacche di cane, selfie con filtri impressionisti e bambini urlanti. Una bacheca interessante è già curriculum.