Era il ventiquattro dicembre del 1958 e avevo sette anni e mezzo. Nel primo pomeriggio i miei genitori mi condussero con la nuova Fiat Millecento appena acquistata nella casa madre della famiglia paterna, nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Nella piccola cucina calda e fumosa le mie quattro zie Gianna, Elena, Dina e Anna, già si affannavano davanti ai fornelli su cui veniva cucinato ogni ben di Dio. Entravo in quell’ambiente, poggiavo la testa al muro e fissavo a bocca aperta l’enorme padella dei fritti con dentro croccanti filetti di baccalà, zucchine, fiori di zucca, broccoli e cavolfiori. In un’altra padella, non meno capiente della prima, prendevano invece vita le costolette d’abbacchio panate con contorno di cicoria ripassata con aglio e peperoncino, mentre in una larga casseruola iniziava finalmente a bollire il ragù di carne per le famose fettuccine fatte in casa di zia Gianna.
È proprio dentro quel sugo che andavo di soppiatto ad intingere il pane, sperando di non essere visto dalle zie, che invece mi beccavano regolarmente e mi cacciavano via in malo modo. Finivo così nello stanzone in cui si trovava la tavola da pranzo già apparecchiata per almeno trenta o anche trentacinque persone. Sul fondo, vicino alla finestra c’era il grande albero di Natale addobbato da luminose palle colorate, fiocchi di neve finta, candeline a luce intermittente e un lungo puntale luccicante che andava quasi a sfiorare il soffitto. Sotto l’albero c’erano i pacchi con i regali e già mi veniva l’acquolina in bocca pensando a quando sarebbe giunta l’ora di aprire i miei, anche se, per arrivare a quel magico momento, c’era ancora molto tempo da aspettare. Verso le sette del pomeriggio iniziavano ad arrivare gli altri parenti. I primi erano quasi sempre lo zio Amedeo e lo zio Cencio che erano davvero simpaticissimi, ognuno a suo modo. Lavoravano tutti e due al cimitero del Verano, a costruire le tombe. E poi ecco lo zio Checco, marito di Dina, impiegato alla Montecatini, sempre vestito bene, profumato e dai modi gentili. Lui parlava sempre della plastica. “La plastica è il futuro, caro mio, ricordatelo”, mi diceva con espressione sicura.
Lo zio Checco amava la plastica perché la sua azienda, la Montecatini, era quella che, solo pochi anni prima, nel 1954, aveva scoperto la molecola del polipropilene e cioè la base della realizzazione del cosiddetto Moplen, la plastica dura con cui sono fatte tuttora tantissime cose, dai prodotti dei casalinghi ai giocattoli, dai contenitori per alimenti alle guarnizioni industriali. Gli altri zii invece adoravano il marmo, forse perché qualcuno di loro, come appunto lo zio Amedeo e lo zio Cencio, con il marmo ci costruivano le tombe al Verano.
Il marmo, per quelle generazioni, era davvero importante e anche segno incondizionato di benessere. Ecco perché moltissime case di lusso costruite negli anni Cinquanta avevano a terra i pavimenti in marmo che poi, negli anni Settanta e successivi, furono sostituiti dai più caldi e accoglienti parquet in legno, tanto amati dagli architetti moderni.
Al seguito dello zio Checco arrivavano anche le figlie Emilia e Rossana e i loro rispettivi fidanzati Claudio e Giancarlo. La zia Tina, moglie di Cencio e bidella della vicina scuola elementare, arrivava invece con i figli Mauro, Gianni e Simonetta. Il posto di capotavola era sempre riservato al parroco del quartiere, il rude e gigantesco padre Libero, grande mangiatore, grande fumatore, gran scoreggione e anche gran narratore di barzellette zozze assai, riservate però ai soli maschi adulti, anche se io cercavo di origliare il più possibile quando parlavano a bassa voce.
La cena natalizia iniziava intorno alle otto e trenta e filava via liscia tra una portata e l’altra, chiacchiere e pettegolezzi di tutti i tipi, stupidaggini, scherzi e grida di noi bambini. Le case all’epoca non erano molto riscaldate e le donne più anziane tenevano sulle spalle uno scialle di lana traforata, fatto ad uncinetto da loro stesse. Gli uomini, invece, dopo il terzo bicchiere di vino rosso, si erano oramai tolti le giacche, ostentando con una certa disinvoltura le voluminose pance che sbattevano miseramente contro il bordo della tavola.
E dopo cena, dopo il dolce, dopo il caffè, dopo l’ammazza caffè che, in genere, era un amaro abruzzese ad alta gradazione che avrebbe annientato anche il capo degli Unni, arrivava finalmente il grande momento della tombolata, tanto amata da noi ragazzini e, secondo me, anche dagli adulti. Anna e Elena avevano in precedenza tolto dai piatti le bucce dei mandarini mangiati dai vari commensali e le avevano sparse a casaccio al centro della tavola, dopo averle accuratamente spezzettate in micro parti che, alla fine, somigliavano tanto al mangime delle galline e che invece servivano per segnare sulla cartella i numeri estratti ed annunciati a voce alta, secondo tradizione.
Il prescelto di turno teneva il cartellone ed iniziava a scandire ad alta voce i numeri che uscivano, comprensivi, naturalmente, di riferimenti storici e commenti vari.
Il numero 22 erano le carrozzelle, 8 gli occhiali, 11 gli zeppetti, 77 le gambe delle donne, però solo di quelle che le gambe ce l’avevano un po’ storte. Quando usciva questo numero tutti si giravano di scatto a guardare la zia Dina, chissà perché.
Il 28 era invece il prete e se serviva al parroco per fare tombola tutti iniziavano a fischiare, a spernacchiare e a dire parolacce; 49 era la ciccia e qualcuno a questo punto chiedeva un altro po’ di fritti da mangiare freddi, durante il gioco; 43 erano le campanelle e, quando usciva, c’era sempre qualcuno che imbrogliava dicendo che avevano appena suonato alla porta. Allora zia Anna si alzava e andava a vedere, ma sulla soglia non trovava mai nessuno e iniziava a gridare, arrabbiatissima; 58 era zi’ Checca e cioè la morte, 49 morto che parla, e allora si faceva tutti il segno della croce e zia Dina iniziava ad elencare tutti i nomi dei parenti defunti: poteva essere una lista interminabile; 90 era la paura, 80 la pelosa, ovvero una donna ricoperta da molti peli superflui e, a questo proposito, non capivo bene anche in questo caso perché, tutti si girassero stavolta a guardare la povera zia Elena che, invece, guardava da un’altra parte, facendo finta di niente.
Insomma, la tombolata in quella nostra casa di San Lorenzo era qualcosa di più di un semplice gioco. Era un rito e, insieme, una commedia di Eduardo de Filippo traslocata d’ufficio da Napoli a Roma. Ogni numero che usciva da quel sacchetto di tela riceveva un commento, un contro-commento, una battuta, tante risate e a volte anche qualche vaffa. Ogni tornata di cartellone poteva durare tantissimo, intanto che si avvicinava l’ora di aprire i regali, momento clou, che avveniva esattamente alle undici e trenta.
Quell’anno, tra le varie cose, mi toccò in sorte anche una chitarra bellissima, di un legno chiaro e luminoso, la tastiera piccola, le corde morbide e delicate. Tutto perfetto, anche se c’era un problema e cioè che io non sapevo proprio suonarlo quel coso. “Non importa — disse lo zio Marcello, autore del regalo — Fai finta e cantaci una canzone”. Ed è così che, facendo appunto finta di suonare e bussando solo con le nocche delle dita sulla cassa dello strumento, improvvisai un improbabile Nel blu dipinto di blu, canzone di Modugno che aveva vinto quell’anno il Festival di Sanremo, tra l’entusiasmo e gli applausi fragorosi di tutti i presenti.
Una ventina di minuti dopo padre Libero si alzò di scatto, guardando l’orologio. “E no, stavolta faccio tardi, cazzo!”, esclamò, precipitandosi subito dopo verso la porta, e, con il passo un po’ traballante di chi aveva alzato troppo il gomito, filò verso la parrocchia per officiare la messa di mezzanotte, seguito a ruota da quasi tutte le donne presenti.
Noi bambini, invece, avevamo da fare con i nostri nuovi giocattoli, mentre gli uomini adulti restavano lì a chiacchierare, a fumare e a bere vino. Col trascorrere del tempo qualcuno dei più anziani si allontanava, per andare infine ad abbattersi rovinosamente su un letto o su qualche divano in giro per la casa. Alcuni iniziavano a russare così forte che sembrava proprio che la Seconda guerra mondiale non fosse ancora terminata e che gli aerei americani stessero di nuovo bombardando le case di quel vecchio quartiere di San Lorenzo.