Scriveva Sartre nella sua introduzione al Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi: “Quando si incontra Carlo Levi a Mosca, a New York, a Parigi, si è subito colpiti da una strana contraddizione: egli, dovunque si trovi, rimane il più romano dei romani, così che si crederebbe non abbia neppure lasciato Roma, o che se la sia portata dietro – simile in questo alla maggioranza degli italiani – ma nello stesso momento – è qui che ne differisce – sembra ritrovarsi dappertutto come a casa propria. Non per arroganza, certamente, o per spavalderia, ma per una sorta di naturale adattamento della sua personalissima vita alla vita quotidiana delle masse: sovietiche, indiane o francesi che siano. All’origine di una tale sensibilità, così acuta da consentirgli di regolare il suo passo su quello degli uomini che lo circondano, di sentirsi completamente a suo agio in una strada straniera – più, forse, che nel proprio appartamento – , c’è la passione della vita; poiché la sua singolare esistenza non può realizzarsi che attraverso una specie di amorosa curiosità per tutte le forme umane del vissuto“.
Sartre, a mio avviso, non espresse il suo sentimento solo verso Carlo Levi, le sue parole enunciavano qualcosa che riguardava gli italiani in generale o comunque una profonda essenza italica. Essa emerse ed emerge tutt’oggi nelle straordinarie imprese degli italiani nel mondo, che ahimè, tornano protagonisti, spesso strumentalmente come in questi giorni prereferendari, per questioni italiane.
L’abilità camaleontica italica veniva messa anche in luce da Prezzolini raccontando un’italiano “tipo”, Casanova: “Egli sapeva adattarsi, quasi come un camaleonte, ai più svariati climi spirituali. Sapeva come ingraziarsi uomini e donne, ricchi e poveri, principi e servi. Sapeva arrampicarsi, per evadere dalle sbarre della prigione più sicura. Si sentiva superiore ad ogni pregiudizio giuridico o religioso, eppure manteneva, allo stesso tempo, una certa umanità, distinzione, raffinatezza e cultura. Ciò che gli manca assolutamente è il senso di appartenere ad una società organizzata”.
Come vado dicendo con frequenza “gli italiani sono diventati postmoderni senza essere stati veramente moderni”. Hanno dato luogo ad una modernità alternativa e per certi versi distinta da quella razional-positivista tipica di altri Stati vincenti della modernità, in primo luogo la Francia. Quella struttura organizzata che Casanova rifugge.
Si tratta di una modernità culturale, di natura glocale e relazionale, alimentata anche della grande diffusione nel mondo dei tanti italiani emigrati. Una modernità che elegge la diversità a vincitrice delle sfide contemporanee, spingendo a riconoscerla come unica possibilità per stabilire l’incontro ed evitare lo scontro. Una modernità umana ed umanistica che spesso dimentichiamo, appiattiti nella paura mediatica di un presentismo ansiogeno e precario, desideroso di nuove mura e confini.
Siamo stati e sempre saremo gente di mare, dediti alla scoperta, alla curiosità, all’incontro con il nuovo. Questo insegna la nostra storia, se però saremo in grado di leggerla senza sovrastrutture, con la disposizione di animo di chi è consapevole dei tanti silenzi che ne hanno turbato e disturbato il cammino, facendo distogliere lo sguardo dai tanti particolari che invece potrebbero apparire decisivi. La penisola a differenza di un’ isola, non isola, ma mantiene un rapporto anche con la terra, non cancella il ricordo, non interrompe la relazione. L’italiano parte senza effettivamente partire del tutto, come se mantenesse un cordone ombelicale lunghissimo con la sua Patria. L’Italia si difende e si isola male e ha dentro di sé i mille segni degli invasori, i colori e i nomi di terre vicine e lontane, poca purezza e molti transiti, incroci e arrivi. Una porta continuamente aperta, costretta dai mari ad esserlo perpetuamente. Essa non ha mai cercato la propria differenza in una purezza incontaminata. Quando ci ha provato ha creato disastri. Preferisce tenersi a contatto, poggia una mano sulla ringhiera. È questa la sua forza e paradossalmente la sua fragilità. La cultura italica è portatrice di una modernità relazionale che s’infrange, purtroppo, nelle paure globali, nell’eccesso di determinismo tecnologico, nella cattiva gestione personalistica del potere, nella memoria corta, nell’ignoranza, nel fallimento della scuola pubblica, nell’arroganza dell’elitismo “illuminato” democratico e dall’ascesa vertiginosa dei populismo. Siamo ad un bivio, dietro si possono avvertire segnali di guerra funesti.
È per questo che sono convinto che fuori dalla modernità più ortodossa possiamo insegnare qualcosa al mondo, senza presentarsi come mero museo della memoria occidentale. A volte basterebbe ricordare e riscoprire quella passione per la vita, che ricordava Sartre, come valore inestimabile, unico, da tenere con cura e diffondere nel mondo.