l referendum che metteva fine all’era nucleare, in Italia, risale a quasi un trentennio fa. Eppure il problema dei depositi nazionali di scorie nucleari, in Italia, non è stato ancora risolto. Oggi il Bel Paese è una gigantesca pattumiera di rifiuti nucleari al centro del Mediterraneo. E nessuno ha ancora deciso cosa farne.
In Italia, sono ben 90.000 i metri cubi di scorie radioattive da trattare. Di questi, il 60 per cento deriva dallo smantellamento dei rifiuti delle vecchie centrali nucleari. Il restante 40 per cento, invece, proviene dalle attività medico-industriali che continuano a produrre rifiuti radioattivi ancora oggi. Ogni anno, infatti, il volume delle scorie aumenta di 500 metri cubi, ovvero 140 tonnellate.
Una quantità di rifiuti nucleari spaventosa e che mette a serio rischio tutto il paese. Soprattutto perché questi rifiuti, ancora oggi, sono depositati in maniera “temporanea”, in siti spesso non idonei e a rischio. Come a Saluggia, in provincia di Vercelli, in Piemonte, nel centro Eurex, dove sono custoditi l’85 per cento dei rifiuti nucleari italiani (compresi quelli ad alta radioattività). Peccato che questo deposito si trovi sulle sponde della Dora Baltea, vicino alla confluenza con il Po, una zona ad elevato rischio alluvionale.
Eppure, secondo la direttiva europea 70/2011/Euratom, l’Italia avrebbe già dovuto provvedere a redigere un programma per la gestione dei rifiuti radioattivi. E, invece, nel silenzio più totale da parte dei media, il “governo del fare” non ha fatto granché. Tanto che, ad oggi, l’Italia è l’unico paese europeo (insieme a Malta) a non aver presentato la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (CNAPI).
Non è commentabile la giustificazione, così come riportata dal sito web Lifegate, addotta da Fabio Chiaravalli, responsabile della Sogin, la società pubblica partecipata dal ministero dell’Economia, che aveva il compito di localizzare, progettare, realizzare e gestire il deposito nazionale definitivo: “Si tratta di un ritardo fisiologico”, ha detto. “I criteri per selezionare le aree idonee sono tanti, 28 per la precisione, e rigorosi: le procedure autorizzative richiedono anni – ha proseguito Chiaravalli – Ma questo succede anche all’estero. In ogni caso possiamo dire di aver iniziato a costruire il deposito, sebbene dalla carta”.
Un controsenso in termini: se i criteri di selezione sono così restrittivi, le aree idonee sono poche e, quindi, la scelta dovrebbe essere più facile. La scelta, infatti, non è difficilissima dato che buona parte del territorio nazionale presenta un rischio sismico troppo elevato. La Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, ha però depositato in Parlamento una relazione sulla gestione dei rifiuti radioattivi, in cui valuta il requisito di rischio sismico, fissato ai tempi del devastante terremoto di Fukushima, in modo alquanto blando. “Non è che non si può fare un deposito in aree dove c’è rischio sismicità – sostiene dalle pagine de La Stampa il presidente della commissione, Alessandro Bratti – bisogna solo costruirlo con le caratteristiche idonee”.
Molte zone dello stivale poi sono improponibili se si applicano gli altri 27 criteri di esclusione per la localizzazione. Alla fine le zone idonee sono solo la parte meridionale della Puglia, parte della Basilicata ionica e del Molise, alcune zone costiere della Campania, del Lazio e della Toscana. Come mai, se è vero che le zone idonee sono così limitate, il governo non è ancora riuscito a individuare i siti in cui realizzare gli impianti di stoccaggio? L’elenco delle aree idonee era atteso per fine agosto 2015, ma non è ancora stato presentato. Un ritardo che è stato segnalato anche dalla Commissione d’inchiesta sui rifiuti che ha sollecitato il “governo del fare” a fare qualcosa. La Commissione infatti ha espresso “preoccupazione per il prolungarsi dei tempi di attesa per la pubblicazione della proposta di Carta delle aree potenzialmente idonee alla localizzazione del deposito nazionale, soprattutto per l’effetto negativo che i successivi, ripetuti rinvii possono produrre sull’immagine di trasparenza del procedimento”.
“È una questione importante, complicata dal punto di vista tecnico – ha cercato di giustificarsi il ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, come racconta La Stampa – stiamo continuando a lavorare, continuiamo con le analisi e le valutazione e le ultime verifiche tecniche”.
In compenso, a luglio, è iniziata la campagna di informazione: spot, inserzioni sui giornali, affissioni e banner sui siti web (per un costo di 3,4 milioni di euro).
Intanto, forse per prendere tempo e far vedere che qualcosa si sta facendo, la Sogin ha presentato il progetto di come dovrà essere il nuovo deposito (anche se non si sa dove). “Non una discarica e nemmeno una pattumiera nucleare”, i rifiuti trattati e compattati saranno chiusi dentro fusti di acciaio riempiti di cementite che saranno sigillati al loro volta in scatole di cemento armato. Quindi le scatole saranno messe in una vasca di cemento che sarà coperta da terreno e poi con un manto erboso. Il tutto per un costo (stimato) di 1,5 miliardi di euro, di cui 650 milioni di euro per la localizzazione, progettazione e costruzione del Deposito Nazionale, 700 milioni di euro per le “infrastrutture interne ed esterne”, e 150 milioni di euro per la realizzazione del Parco Tecnologico. Si tratta di soldi che gli italiani stanno già pagando (con la componente tariffaria A2 della bolletta elettrica). E da tempo. Ma dei quali, il “governo del fare” non si sa cosa abbia fatto.
Agli italiani non resta che aspettare e sperare dato che, almeno stando alle previsioni riportate sul sito web realizzato (forse l’unica cosa completata?), e basate sul rispetto dei tempi dettati dalla normativa vigente, i lavori per la costruzione del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico non cominceranno prima del 2019. E dato che avranno (sempre secondo le rosee previsioni ufficiali) una durata di circa 5 anni, “la fase di esercizio dell’infrastruttura avrà inizio entro il 2024”.
Fino ad allora, tonnellate e tonnellate di rifiuti nucleari estremamente pericolosi continueranno ad essere stoccati in 90 capannoni e bunker che da un capo all’altro dell’Italia ospitano rifiuti radioattivi e combustibile irraggiato. Siti “temporanei” che continueranno ad essere tali e ad aumentare. Nella speranza che, nel frattempo, non accada niente di irreparabile.