Caro Direttore, quella in Ucraina è una guerra dimenticata o destinata a diventarlo in un tempo breve? Lo temo. Lo credo.
Su una ciotola vicino al computer che uso per scriverle c’è un braccialetto di metallo, ogni tanto lo indosso. Ha una storia, quel braccialetto. Un occhio acuto lo stesso braccialetto può vederlo al polso, pensa un po’, di John Wayne nei suoi ultimi film: Brannigan, Rooster Cogburn, The Shootist… E’ il simbolo di chi è solidale con il popolo dei Montagnard (“Montanari”, in francese). Loro si definiscono Degar: “figli delle montagne”; è un’etnia composta da una quarantina di ceppi, dal mongolo-tibetano al malese-polinesiano. I Degar o Montagnard che dir si voglia, vivevano nel sud dell’Indocina. Con i vietnamiti non hanno mai legato: li considerano “moi” (selvaggi) e “nguoi dan toc” (popolo tribale).
I Montagnard in maggioranza cristiani cattolici, anticomunisti, al tempo della guerra si sono schierati con gli Stati Uniti. Dopo l’abbandono degli americani del Vietnam, hanno dovuto fare i conti con i vincitori: conti salati e amari. Una piccola parte è riuscita a stabilirsi in California; molti si sono rifugiati nelle jungle e nelle montagne tra Vietnam, Cambogia, Laos. Nel 2006 si calcolava fossero circa sei milioni, ora sembra siano ridotti a 800mila: il resto vittime di eccidi, massacri, vendette. La loro storia è pochissimo conosciuta, non interessa nessuno. Quale che sia il giudizio storico e morale che si dà alla lunga e spietata guerra che ha visto gli Stati Uniti impegnati in Vietnam, un fatto è che i Montagnard, sono stati usati e poi abbandonati, dimenticati.
Frugo nel mio archivio di fotografie salvate dal sempre più frequente usa-e-getta che è diventata la cifra dei giornali (“tanto ci sono i computer”). Molte ritraggono le miliziane curde che una decina di anni fa, nella regione del Rojava, lottavano insieme alla coalizione internazionale: avevano riconquistato i territori occupati dall’ISIS fino a costringere i tagliagole dello stato islamico alla resa. Televisioni e giornali mostravano le immagini dell’Unità di Protezione popolare (“Yekîneyên Parastina Jin: YPJ) le paladine indomite della libertà. Loro e i loro uomini nel Nord-Est della Siria erano il baluardo contro il terrorismo: la nuova democrazia del Rojava il modello di una convivenza civile di diverse religioni ed etnie dove tutti erano rappresentati senza distinzione di religione, sesso, pensiero.
Dopo anni di lotta finalmente i curdi avevano una loro patria. Un esperimento che ci ha appassionato, e mezzo mondo era interessato, a parole sosteneva rivendicazioni e tentativo. Com’è finita? La Turchia di Recep Tayyip Erdogan ha bombardato quel territorio, il Rojava non è riconosciuto a livello internazionale, isolato, circondato da forze ostili come la Siria del regime di Assad. Kobane o Raqqa nomi dimenticati; quelle ragazze che hanno combattuto l’ISIS probabilmente sono state uccise. La Turchia non dà loro tregua: dalla fondazione ufficiale del Rojava, ci sono stati centinaia di attacchi e tentativi di invasione.

Uno in particolare, nel 2018, ha cambiato nuovamente i confini di questa regione: l’invasione della città di Afrin (con il supporto dell’Amministrazione Trump). Un’occupazione che ha portato 300 mila civili ad abbandonare la propria terra. In Rojava vivono quattro milioni e mezzo di persone. La maggioranza, è di etnia curda, seguiti da arabi sunniti. Sono presenti anche minoranze cristiane, circa 55 mila persone di diverse confessioni: armeni, siriaci, assiri. Meno numerosi i musulmani sciiti e yazidi. Gli abitanti del Rojava continuano a considerarsi la più importante risorsa contro il terrorismo islamico. Si sentono però abbandonati, soli a fronteggiare nuovi conflitti, non ufficialmente riconosciuti da nessuno, nemmeno dai propri alleati di un tempo.
Ma dimenticati anche i ceceni, i georgiani, i tibetani, gli iracheni, gli afgani: tante promesse, fatti zero. Degli ucraini ci si è accorti di recente, quando Vladimir Putin pensava di poterla ingoiare con relativa facilità, ma era già da anni che in quel Paese si combatteva e moriva. L’Unione Europea ne ha preso consapevolezza e cognizione solo dopo che gli Stati Uniti e la NATO hanno detto basta. Grazie alla pressione di Washington anche a Bruxelles e le cancellerie di Berlino, Londra, Parigi, Roma, hanno “sentito” come intollerabile e da respingere le pretese annessioniste di Mosca…
Non reagire, accettare l’ennesimo sopruso ne avrebbe legittimato un altro, ben più gravoso che gli Stati Uniti non si possono permettere: quello di Pechino nei confronti di Taiwan: isola al momento troppo preziosa, nel complesso gioco geo-politico. Non bisogna poi dimenticare che grazie a una sciagurata politica la cui responsabilità va fatta risalire ai tempi di Jacques Chirac e François Hollande (per quel che riguarda la Francia) e ai tempi di Bill Clinton e Barak Obama (per quello che riguarda gli USA), si sta inesorabilmente perdendo influenza e prestigio praticamente in tutta l’Africa. Non si può trascurare il fatto che l’unica base militare cinese fuori dalla Cina sia a Gibuti, nel Corno d’Africa. Lì, la partita se la giocano russi, cinesi, islamici. Per questo resistere in Ucraina è diventato così importante.
Poi, certo: le guerre siano una fonte inesauribile di guadagno. Già il presidente-generale Dwight “Ike” Eisenhower, nel suo discorso di congedo dalla Casa Bianca aveva messo in guardia dal “complesso militare-industriale” (in una prima versione aveva aggiunto “congressuale”, poi non aveva voluto calcare la mano). Ciò non toglie che mercanti e lobby a parte, le guerre a lungo andare stancano; il contribuente medio dell’Ohio o della Pennsylvania, per quanto solidale con le cause degli oppressi, vuole che le sue tasse siano impiegate per la manutenzione del “suo giardino”. Potrà non piacere, ma è così. Del resto, non credo che gli europei la pensino in modo diverso.

Ora poi c’è Hamas e il suo orribile attacco a Israele il 7 ottobre scorso. È naturale che la guerra in Ucraina passi in secondo piano, che l’attenzione del mondo sia catalizzata dal magma mediorientale: Hamas e l’Iran sua sostenitrice finora non hanno per ora ottenuto i risultati auspicati, un po’ tutto il mondo arabo che conta (Arabia Saudita, Egitto, Giordania), si limita a blande condanne verbali per la guerra che Israele ha portato a Gaza; nei fatti assiste più preoccupato che compiaciuto e solidale. Gli stessi palestinesi è possibile che comincino a rendersi conto che il vero nemico è Hamas. Ciò non toglie che Israele è stato colto di sorpresa in modo traumatico, intaccato il mito della sua invincibilità; soprattutto si è rivelato un paese preda di fortissime inaccettabili pulsioni autodistruttive. Benjamin Netanyahu è la persona sbagliata, che fa le cose sbagliate nel momento sbagliato. Dell’iniziale spinta propulsiva dei grandi padri fondatori è rimasto ben poco. A complicare le cose il fatto che non si scorge un’alternativa credibile e autorevole.
Si capisce che il presidente Joe Biden sia più attento a quello che accade a Gerusalemme e Gaza che a Kijv e Odessa. Non foss’altro per ragioni di bottega: con le elezioni presidenziali alle porte e una buona parte del paese che sembra indifferente a quello che è accaduto a Capitol Hill, pronto a rieleggere un golpista per presidente, Biden deve necessariamente vellicare quella parte di elettorato ebraico che può risultare determinante per la sua riconferma. Deve inoltre dimostrare (cosa non facile) di essere nel pieno controllo delle sue facoltà mentali e fisiche.
In conclusione. L’esperienza del passato, la preoccupazione per quello che accade nel presente, porta a ritenere che in futuro non troppo lontano l’Ucraina e il suo valoroso popolo si ritroverà solo. Purtroppo, Putin e la sua banda sembrano essere saldamente al potere, ogni possibile rivale è inesorabilmente, spietatamente spazzato via. L’Unione Europea è tutto meno che “Unione”: sempre più, per un malinteso anelito di “pace”, appena gli Stati Uniti allenteranno la presa, volterà le spalle all’Ucraina. Quanto agli Stati Uniti fino a quando saranno disposti a essere i “gendarmi del mondo”? Le spinte e le tentazioni isolazioniste mi sembrano sempre più consistenti ed esplicite. Kijv sempre più lontana.