Asia Naurin Bibi è una donna pakistana di una cinquantina d’anni, cristiana cattolica, condannata a morte con l’accusa di aver offeso Maometto. La sentenza è stata emessa nel 2010 da una corte del distretto pakistano di Nankana, nella provincia centrale del Punjab.
La storia di Asia comincia il 14 giugno 2009. Asia, lavoratrice agricola a giornata, quel giorno raccoglie alcune bacche. Scoppia un diverbio con le lavoratrici vicine, di religione musulmana. A lei viene chiesto di andare a prendere dell’acqua. Un gruppo di donne musulmane la respinge: Asia, in quanto cristiana, non deve toccare il recipiente. Cinque giorni dopo denunciano Asia, sostengono che durante il diverbio ha offeso Maometto. Picchiata, chiusa in uno stanzino, viene stuprata, poi arrestata, nonostante contro di lei non ci sia nessuna prova; infine imprigionata nel carcere di Sheikhupura. Asia da sempre nega ogni accusa e replica di essere perseguitata per la sua religione.
L’11 novembre 2010 il giudice di Nankana, Naveed Iqbal – ogni tanto ricordiamoceli i nomi di questi carnefici – emette la sentenza: esclude «totalmente» la possibilità che Asia Bibi sia accusata ingiustamente; ci mette poi del suo, perché sostiene che «non esistono circostanze attenuanti».

Nel dicembre 2011 una delegazione della Masihi Foundation, un’organizzazione non governativa che si occupa dell’assistenza legale e materiale di Asia, la visita in carcere. Le sue condizioni di igiene personale appaiono terribili e le sue condizioni di salute, sia fisica che psichica, critiche. Il 16 ottobre 2014, dopo quasi quattro anni dalla presentazione del ricorso avverso alla sentenza di primo grado, si pronuncia l’Alta Corte di Lahore: conferma la pena capitale. Il 22 giugno 2015 la Corte Suprema sospende la pena, rimandando il processo ad un tribunale.
Nel dicembre del 2014 Sardar Mushtaq Gill, uno degli avvocati di Asia, lamenta gravissime irregolarità nel processo; per esempio, all’interno del tribunale il cancelliere ha puntato una pistola alla testa dell’avvocato difensore. Porta inoltre prove del fatto che, in casi di accuse di blasfemia, i cristiani vengono trattati in modo differente dai musulmani.
Asia continua a restare in carcere. Asia è diventato un “caso”, al di là della penosa, atroce, incredibile vicenda. Basti dire che in Pakistan due politici di primo piano che si sono schierati al suo fianco, e hanno chiesto la revisione della legge sulla blasfemia, sono stati uccisi; e una consistente parte dell’opinione pubblica ha giustificato, approvato i delitti. Le manifestazioni di piazza a favore degli assassini hanno fatto desistere il governo da qualunque ipotesi di revisione della sentenza Asia o della legge sulla blasfemia.
Senza risultato gli appelli delle principali organizzazioni internazionali per i diritti umani, delle cancellerie occidentali. Asia continua a restare in carcere; e chiunque in Pakistan sia associato alla sua vicenda rischia la vita.
Il 19 giugno saranno nove anni da quando Asia è in carcere. Dal 1990 in Pakistan, secondo “l’Economist”, sono state uccise 62 persone accuse di blasfemia.
Dal Pakistan alla Turchia. Ahmet Altan è un giornalista e scrittore. Uno degli autori più noti e popolari del suo paese.

Nel 2016 viene incarcerato, per reati d’opinione. Due anni dopo viene condannato all’ergastolo, al termine di un processo-farsa per aver appoggiato, il cosiddetto colpo di stato fallito del luglio 2016. È autore di un piccolo, prezioso volume, “Tre manifesti per la libertà”.
Il libro si apre con una “lettera” al presidente turco Erdogan: cinquantun premi Nobel chiedono la scarcerazione di Altan, e che sia ristabilito lo stato di diritto in Turchia. Seguono tre testi di Altan: le memorie difensive in cui difende il suo diritto alle opinioni che coltiva, il diritto di poterle manifestare; e più in generale parla di giustizia e legalità; al tempo stesso mette in ridicolo le accuse contro di lui e il sistema corrotto e violento che ha trascinato il suo paese verso la dittatura. Da accusato si fa accusatore: “Giudicherò coloro che, a sangue freddo, hanno ucciso il sistema della giustizia consentendo l’arresto di migliaia di cittadini innocenti. Non ho il potere di punire la gente né d’incarcerarla e, in ogni caso, non vorrei mai avere questo potere. Ma ho il potere di svelare l’omicidio, di identificare l’assassino, di mostrare le armi sanguinarie usate per questo infido delitto e di raccontare i crimini che sono stati commessi”.
Dice Altan: “E’ la mia risposta al pubblico ministero. Della sua galera non mi importa niente. Continuerò a dire la verità. Ho detto la verità tutta la vita. Non ho intenzione di smettere adesso. Non sono il genere d’uomo che si lascia spaventare. Non sono il genere d’uomo che agisce per vigliaccheria e sperpera i tanti decenni che ha già vissuto per amore dei pochi anni che gli rimangono”.
Scritto con passione e lucidità, “Tre manifesti per la libertà” echeggia le migliori opere migliori della tradizione illuminista e democratica, i “J’accuse” di “zoliana” memoria; i principi e i valori del pensiero liberale e libertario. Un omaggio alla libertà, al diritto, alla legalità. Qualcosa di cui, un po’ ovunque, si sta smattendo sapore e gusto.