La tortura, in linea generale ma chiara, è un abuso, commesso da chi detiene legalmente una persona, verso di essa. L’abuso è commesso con violenza, fisica o psichica: sia mettendola in atto, sia solo minacciandola. A vari fini. Ma il fine eminente è la confessione. La confessione è l’affermazione che la persona detenuta fa al torturatore, di un comportamento variamente ritenuto colpevole: proprio o, più frequentemente, anche altrui. A ciò indotto dalla promessa, esplicita o larvata, o dalla speranza, che la violenza cessi, o che la minaccia sia riposta. Il cerchio si chiude, dunque, dicendo che la tortura è l’esercizio di un dominio legalistico assoluto, di un’istituzione coercitiva, su un essere umano. Questo è: per esperienza e dottrina acquisite lungo i secoli, in Italia, e dovunque nel mondo; ma in Italia, essendo culla del diritto, siamo anche culla dei suoi profili, per così dire, meno esemplari. Facile, no? Nemmeno per sogno.
Perché la legge appena approvata sfuma, cavilla, svicola. Due parole, due: perché a fare “ermeneutica” si affaticano vanamente le meningi: e poi, non serve a granché. Andiamo alla grossa, che basta e avanza.
In primo luogo, ci imbattiamo in un “Chiunque”. Ma che c’entra il “chiunque”, se siamo in un ufficio di una Forza di Pubblica Sicurezza (ma non solo, come vedremo)? Si vuole dire che è tortura anche l’atto del vicino matto, che ci chiude in garage, e ci incatena o peggio? Niente da fare: sarebbero lesioni, sequestro di persona e altro, più o meno aggravati; già previsto.
Poi leggiamo che alla tortura metterebbero capo “più condotte”. Ah sì? E cos’è “condotta”, al singolare, allora? Un atto che si compie entro la sfera di dominio corporeo dell’autore? E di un atto formale, o legale, come un provvedimento apparentemente ineccepibile, che ne facciamo? E, comunque, se, nel primo caso, finisce che un bel pugno magari non basta, a configurare la tortura, proprio perché è uno; ecco che, il secondo, ci fa intravedere da cosa o da chi la nuova Legge realmente svicola, per chi cavilla.
Un provvedimento, anche solo dal punto di vista corporeo, implica l’intervento di più soggetti, ciascuno dei quali è competente per una parte, ma non per le altre: sicché risulterebbe impossibile riferirgli le molteplici “condotte” che pure ci sarebbero. E peggio sarebbe se, al contrario, si volesse considerare il provvedimento in termini “funzionali”, come una unità “procedimentale”, indistinguibile dalle singole parti che la compongono: proprio perché allora sarebbe solo uno. E tanto, solo per considerare la faccenda dal punto di vista delle “più condotte”.
Ma abbiamo solo intravisto l’uomo nero che non si deve scoprire. Proviamo a vedere meglio. E’ prevista l’ipotesi che “i fatti di cui al primo comma”, siano commessi da “pubblici ufficiali” (ma va’?), e ne verrebbe una circostanza aggravante; però, ecco la magia: questa “non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”. Eccoci.
Questo accorgimento liberatorio, che pare riferirsi solo ad un’ipotesi secondaria (una semplice circostanza aggravante), ci svela a chi si sta pensando. Perché, ponendo l’accento sulle “sofferenze” che, nell’impianto della fattispecie, costituiscono “l’evento” causato dalle “più condotte”, e presentandoci l’ipotesi che queste si diano in un certo “ambiente” (“legittime misure privative o limitative di diritti”), esso ci mostra in realtà che “tortura”, oggi, non è la fune di una carrucola, o i ferri roventi, ma l’arnese custodiale: siamo in Procura, non in un sotterraneo ammuffito.
E’ parsa allora precipitosa l’affermazione del dott. Carlo Nordio, che pure è voce sempre acuta, e attenta a rilevare le miserie del nostro sistema giudiziario: “Come strumento di indagine, dopo essere stata adottata equamente da tutti gli stati, dai tempi di Lugalzaggisi, re di Uruk, fino alla quarta repubblica francese in Algeria, è quasi scomparsa nei Paesi democratici.” Ma l’uso della custodia cautelare per estorcere confessioni non è una distopia normativa, come oggi dicono i colti: è una prassi rivendicata e ampiamente legittimata, dei cui alti e bassi sostenitori sono noti nomi, cognomi e soprannomi. Critiche dolenti da convegno, a parte.
I sommari lineamenti “dell’istituto”, presentati all’inizio di queste righe, per ciascuno che volesse, infatti, si attagliano senza la minima forzatura proprio ai casi nostri.
In questi termini, appare ancor più chiaro che la previsione principale, quella rivolta a “chiunque”, è una maschera; sotto, al primo posto, c’è chi ha realmente il potere di “cagionare” “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale”. Il quale, però, gode di quella che, di fatto, è una scriminante generale e automatica. Una volta posto al riparo dalle responsabilità per la “tortura da provvedimento”, il “pubblico ufficiale”, non avrà soverchie difficoltà a porsi al riparo anche dalla norma “principale”, per come è congegnata.
Che poi, questa trama di previsioni e di sottintesi, possa riferirsi anche a soggetti appartenenti alle Forze dell’Ordine, è ovvio; dato che “le misure privative o limitative di diritti” implicano necessariamente il loro intervento materiale: ma costoro agiscono, anche quando sono Alti Ufficiali, alle dipendenze “funzionali” del Pubblico Ministero. Perciò il convitato di pietra, anche del reato di tortura, è il solito ignoto italiano. E, siccome il solito ignoto italiano, è al riparo da ogni reale controllo e da ogni personale responsabilità, stiamo solo perdendo tempo.
Ma sia chiaro: il grande demerito, per il consolidarsi del regresso istituzionale, culturale e civile in Italia, è di simili riformatori: con la loro sesquipedale, servile sciatteria.
Un demerito che, ogni giorno di più, appare persino maggiore di quello acquisito dalla magistratura associata: in questi infelicissimi, ultimi venticinque anni.