Ci sono voluti sei anni per farlo parlare di quelle storie, di quelle persone che ogni giorno lavorano per un’Italia su cui puntare ancora, di avventure che hanno reso la sua vita ruvida, il suo scrivere schietto, il suo rap tagliente. Dai viaggi verso la musica fino al Bronx, dalla Little Italy newyorchese alla musica delle coste calabresi e all’anima delle persone, nei racconti di musica e resistenza c’è la poesia di una vita fatta di lotta e controcultura. Ci sono le parole di un libro, Resistenza Rap. (Musica, lotta e (forse) poesia: come l’Hip-Hop ha cambiato la mia vita), uscito di recente per Round Robin Editrice, che raccontano il territorio, le persone pronte a sporcarsi le mani, a lavorare. In parallelo ci sono le ritmiche poetiche, i brani dell’album Da Sud, idee potenti e obbiettivi precisi in cui l’hip hop è “in aiuto degli oppressi”. Francesco “Kento” Carlo è il vero MC, il Master of Ceremonies, di una musica inequivocabile, di un messaggio chiaro: “Esci, vai in strada, vai nei locali, nelle piazze, perché vedere i video su youtube è importante ma l’hip hop non è quello, l’hip hop nasce in strada ed è li che vive”.
Di cultura e controcultura, di musica e di persone, è questa la storia che Kento mi ha raccontato in una giornata primaverile romana davanti a un caffè.
Francesco partiamo dalle tue origini di musicista. Nel tuo libro, Resistenza Rap, racconti dei viaggi da giovanissimo in cerca della musica su e giù per l’Italia, da Roma a Milano passando per Cosenza. Quali sono i luoghi culto di questo tuo approdo al mondo musicale italiano?

“Per quanto riguarda i luoghi culto ci sono dei luoghi permanenti e dei luoghi provvisori. Tra i luoghi permanenti ci sono il Forte Prenestino a Roma, l’occupazione di via dei Volsci, Radio Onda Rossa e così via, quindi dei posti che permangono e dove in quegli anni si sviluppava parecchio della cultura hip hop. Poi ci sono dei luoghi provvisori che sono le piazze, i porticati del Teatro Regio a Torino piuttosto che il famoso Muretto a Milano o piazza Colonna a Roma, dei luoghi in cui la cultura hip hop si sviluppava spontaneamente, dei luoghi che sono un culto per chi sa, un segreto in piena luce, perché molta gente magari ci passa ma non sa che sono una parte molto importante della controcultura italiana”.
Nelle tue peregrinazioni c’è una meta ricorrente, la Feltrinelli di Roma, in cerca di riviste e contatti col mondo dell’hip hop e in cerca di una specifica rivista, Alleanza Latina. Cosa rappresenta per te quel luogo?
“Quei viaggi per cercare le fanzine, per cercare Alleanza Latina, per incontrare la gente, erano una sorta di pellegrinaggio laico per andare alla scoperta di questa cultura. Non ti nascondo che mi fa un po’ impressione, però è un’impressione positiva, chiudere il cerchio e pensare che in quella Feltrinelli oggi c’è il mio libro”.
La cultura Hip-Hop arriva dalla New York degli anni ’70, dal Bronx, con DJ Kool Herc e i Block Party. Era la possibilità di esprimersi a definire questo movimento: ogni persona poteva mostrare la sua identità, il proprio valore artistico e la propria musica. Ma come arriva in Italia? Come ti avvicini a questo mondo, quando hai detto per la prima volta “io sono questa musica”?
“L’hip hop arriva in Italia già negli anni ‘80, nella generazione precedente alla mia, in un periodo in cui ero ancora troppo giovane per avvicinarmici. C’erano una serie di pionieri che hanno fatto diventare l’hip hop già un movimento. Io per ragioni anagrafiche mi avvicino a questo mondo negli anni ’90; però era ancora presto per far parte della cosiddetta golden age. Quando ascoltavo la musica degli anni ‘90, o anche degli anni ‘80, come i Public Enemy e i Beastie Boys, era musica bellissima, era dirompente, era innovativa. Ancora adesso se ascolti un loro disco la botta è sempre quella. Per cui in quel momento mi sono accorto che questa cosa mi piaceva, ma non c’è stato un momento vero in cui ho detto: voglio fare questo. Ho iniziato a scrivere, ad avvicinarmi a questa cultura perché ne ero irresistibilmente attratto. Poi mi sono reso conto che c’era un movimento intorno a me, sono cresciuto, sono diventato abbastanza grande da poter girare da solo, da poter andare alle serate e far parte del movimento, quindi molto più tardi ho iniziato a prendere sul serio questa cosa e da li è partito un fantastico viaggio che mi auguro mi porti ancora molto lontano”.
Quali sono i tratti particolari che ti hanno fatto innamorare di questa cultura?
“Sicuramente mi piace la sua natura assolutamente eretica perché chi fa rap canta ma non canta, chi fa scratch suona ma non suona, chi dipinge, chi balla, è un modo molto eretico e originale di rivoltare le forme di espressione che esistevano fino a quel tempo. In Italia c’è stata fin dal primo momento un forte attenzione alle diverse forme di espressione, ma quello che mi interessa ricordare è che l’hip hop, e il rap in particolare, è un genere basato sulla parola, sull’espressione, sul concetto. E io che mi sentivo fin da piccolo di avere delle cose da dire, e mi sento di averne da dire anche adesso, non potevo fare a meno di scrivere. Da li è iniziato tutto”.
Poi, alla fine degli anni ’90, arriva Internet e tutta la digitalizzazione del mondo musicale e della comunicazione. Come ha influito nella musica questa digitalizzazione?
“Io la vedo positivamente, nel senso che oggi è molto più facile comunicare, scambiarsi informazioni, immagini, musica. È molto bella e molto interessante e vorrei che questa cosa fosse successa dieci anni prima, così avrei potuto usufruirne anch’io quando ero ragazzino. Quindi non deve essere una colpa dei più giovani essere nati nell’era digitale. Quello che ci tengo a dire è che la cultura digitale e l’information sharing non sostituiscono l’ispirazione e l’esperienza reale. Quando mi chiedono che consiglio daresti a chi inizia a fare musica la mia risposta è sempre uguale: esci, vai in strada, vai nei locali, nelle piazze; perché vedere i video su YouTube è importante ma l’hip hop non è quello, l’hip hop nasce in strada ed è li che vive. Insomma il digitale è importante e interessante se sommato all’esperienza reale, non se la sostituisce”.
Ti cito una tua frase in Resistenza Rap: “L’arte per l’arte non mi soddisfa, non riesco a vederla senza uno scopo ulteriore”. Qual è il tuo motivo di fare arte, quindi musica?

“Vedi, l’hip hop fin dalle origini è legato a due istanze che sono il riscatto personale e il riscatto sociale. A me interessa molto il discorso collettivo e sociale, mi piacerebbe molto che si riuscisse a dare voce a chi non ne ha, a parlare di quello di cui altrimenti non si parla, ad affrontare argomenti scomodi e difficili, a raccontare la realtà ma anche a ispirare chi ci ascolta. Che poi è quello che provo a fare con la mia musica”.
Proprio la tua musica si può definire “territoriale”, con un forte legame alla Calabria, la tua terra d’origine, e alle sue problematiche. Una tra tutte la mafia. A tal proposito c’è una storia nel tuo libro che mi è rimasta in mente, mi riferisco alla notte del primo ottobre 2011 a Piscopio (Vibo Valentia): la storia di Don Mario e della lotta alla mafia, la storia della tua coscienza musicale. Quanto questo episodio ti ha condizionato?
“Si tratta di una storia di boicottaggio di un nostro concerto, in un paesino dove era in corso una ferocissima guerra di ‘ndrangheta, e di Don Mario, un prete antimafia, uno di quelli che sarebbe sicuramente stato amico di Don Gallo e Don Puglisi. Personalmente cerco di non farmi influenzare dagli episodi negativi quanto piuttosto da quelli positivi; quindi direi che le grandi prove e testimonianze di solidarietà che abbiamo avuto mi portano ad essere contento e motivato e a fare la mia musica con maggiore convinzione. Gli episodi negativi cerco di leggerli come una testimonianza che la nostra musica arriva, la nostra musica dà fastidio e la nostra musica è schierata apertamente, non è equivoca e il messaggio è chiaro. Quindi indirettamente anche un episodio assolutamente negativo come questo raccontato è per me una motivazione in più a fare musica come credo e continuare a lottare”.
Dal 2011 ad oggi cosa è cambiato? Perché hai deciso di raccontare la storia di Piscopio?
“Sai, sono tante storie, tante figure delle quali sul momento non ho voluto parlare perché probabilmente raccontando queste storie in maniera tanto ravvicinata avrei creato dei problemi alle persone che erano li sul territorio. Però adesso è passato qualche anno ed era giusto fissare la memoria per evitare che si perdesse. Questo è uno di quei piccoli grandi episodi di cui appunto volevo conservare la memoria. Addirittura mi ha dato molta soddisfazione sapere che alcuni dei ragazzi che suonavano, e suonano con me, hanno detto ‘ah è vero, è successa quella cosa! Menomale che l’hai scritta altrimenti avremmo rischiato di dimenticarla'”.
Secondo te, che la vivi in prima persona, quanto può fare la musica nelle menti dei cittadini di questo paese?
“Chi fa musica ha sempre un posto di riguardo nella mente e nel cuore delle persone, però secondo me il vero esempio non dovrebbe essere il cantante, a maggior ragione il rapper. Il vero esempio dovrebbe essere chi lavora ogni giorno sul territorio, chi si impegna e chi ogni giorno fa una lotta alle mafie ma in generale per lo sviluppo del territorio di riferimento. Quindi se un ragazzo vuole fare veramente qualcosa per il posto in cui vive non stesse tanto a sentire i rapper, scendesse per strada e si mettesse a guardare chi è che fa veramente qualcosa per il riscatto del territorio. Ci sono tantissime realtà in ogni ambito d’Italia. Chi fa musica molto spesso arriva in una città, suona e se ne va. Nel momento in cui canta può cercare di dire qualcosa di interessante e di intelligente ma non bisogna mai dimenticarsi che in quella stessa città c’è gente che lavora sul territorio ogni giorno e sono loro le persone che veramente meritano rispetto e supporto”.

Quanto la storia raccontata nel libro è una fotografia dell’Italia attuale, non solo del periodo in cui è accaduta ma anche del 2017?
“Vorrei dirti che si tratta di episodi lontani nel tempo ma non è così, nel senso che c’è ancora molto da lavorare. Ma io sono molto fiducioso nei confronti del nostro Sud, sono molto fiducioso nei confronti dei nostri ragazzi, nello specifico dei giovani rapper che cominciano a fare musica adesso, che secondo me possono essere uno strumento interessante di riscatto. Da questo punto di vista sono totalmente ottimista”.
Da una storia all’altra, passiamo a un altro continente: New York 2009, Relief Record, il tuo primo approdo discografico negli USA. Raccontaci del momento in cui sei entrato per la prima volta in quello studio di Brooklyn.
“Ovviamente New York è la Mecca per chi fa hip hop. Approcciandomi all’hip hop a New York ho avuto la stessa sensazione che ho avuto approcciandomi al raggae in Jamaica o al flamenco nei paesi latini. La cosa che più mi ha colpito è stata la dimensione folk della musica, la dimensione popolare, il fatto che New York sia l’hip hop e che l’hip hop per molti versi sia New York. Anche a New York mi sono cadute un po’ di barriere e di preconcetti, ho provato a lanciarmi anche con un po’ di incoscienza. Devo dire che i risultati sono stati positivi. Per quanto sia banale o scontato dirlo se sei coerente con te stesso e se dici la verità questa cosa viene riconosciuta, a prescindere dalle varie latitudini e a prescindere dalle barriere linguistiche”.
Hai notato qualche differenza nella produzione musicale, nel modo di lavorare? Ci sono differenze nel lavorare con una casa discografica americana?
“New York è molto avanti, l’hip hop fa parte del tessuto sociale e culturale della citta. Molte cose che fino a poco tempo fa qui in Italia era necessario spiegarle lì erano date per intese. Da questo punto di vista per me è stato molto semplice e molto naturale approcciarmi a quel modo di fare. E se tutto va bene ci saranno presto delle nuove occasioni di farlo”.

Ci sono posti, locali, eventi nella Grande Mela che hanno lasciato il segno nei tuoi ricordi, che sono stati una fonte di ispirazione e cambiamento?
“Dei posti il primo che mi viene in mente è sicuramente l’Apollo Theater ad Harlem dove ho avuto la fortuna di ascoltare il rap dal vivo, di ascoltare il rap a casa sua e di rendermi conto di quanto New York e l’hip hop siano la stessa cosa. Ecco, il rap a casa sua, lo riassumerei così. Poi ti potrei raccontare di un viaggio sulla sopraelevata in cui mi trovo davanti, nel South Bronx, il famoso graffito Big Pun Forever. È stata una grande emozione l’averlo visto, l’essermelo trovato davanti è stato un impatto molto forte. Ci sono tanti luoghi di cui ti potrei parlare, come Little Italy nel Bronx, ti potrei parlare di Arthur Avenue, della mia famiglia che è sparsa negli Stati Uniti, insomma i luoghi dell’anima sono tanti e spero ce ne saranno tanti altri ancora”.
Ti sei immergerso nella cultura italiana di Little Italy nel Bronx?
“Beh certamente, di Little Italy potrei raccontarti un episodio divertente quando con la mia ragazza siamo entrati nel mercato coperto. Appena hanno capito che eravamo italiani e che ero calabrese mi hanno fatto assaggiare qualsiasi cosa in modo che potessi garantire che erano prodotti originali del Sud Italia e che erano buonissimi. Sono uscito da la che non ne potevo più di mangiare, ma mi sono sentito accolto come a casa. E poi la cosa divertente è che ho trovato le stesse immagini in un video rap, che è quello di Action Bronson e si chiama Shiraz, girato appunto li. È stata un’accoglienza molto divertente, molto italiana e molto meridionale che mi auguro di ripetere al più presto”.
In contemporanea al libro Resistenza Rap esce il disco Da Sud che vanta la produzione dell’Associazione antimafie daSud. C’è un pezzo che mi ha molto colpito, si intitola H.I.P. H.O.P., acronimo di “ho idee potenti, ho obiettivi precisi”. Credi che sia il motto vero dell’hip hop, come dicevi tu prima, il bisogno di trasmettere, di arrivare?

“H.I.P H.P.P. tra l’altro è un omaggio indiretto a un altro MC del Bronx che è Krs-One: lui diceva ‘Her Infinite Power Helping Oppressed People’ (il suo potere infinito in aiuto degli oppressi). A me è piaciuto questo gioco di parole, l’ho fatto mio e l’ho messo in italiano. Mi auguro veramente che chiunque abbia una penna in mano abbia idee potenti e obiettivi precisi. Tornando alla domanda, è un motto che mi piace non soltanto per l’hip hop ma per chiunque, per esempio per te che sei un giornalista, per chiunque si esprime. Nel momento in cui ha un idea che è forte e un obiettivo ben individuato è difficile che fallisca. Quindi è un esortazione ma anche un augurio che fa per chi ascolta”.
In Da Sud, album in cui suoni con i Voodoo Brothers, uscito a dicembre, trova spazio anche il cantautorato con Sergio De Felice e Carmine Torchia. Come prendi il fatto che oggi qualcuno definisce i rapper come i nuovi cantautori? Pensi che la cultura musicale italiana sia definitivamente pronta a questo genere?
“I rapper sono i nuovi cantautori? Sì e no. Sì perché in senso strettamente letterale i rapper cantano, meglio rappano, quello che scrivono e quindi sono autori dei loro pezzi. No perché se guardiamo il cantautorato storico degli anni ‘60 e ‘70 io trovo che abbia avuto un impatto sulla musica e sulla società italiana enorme che ancora il rap non ha. Mi auguro che lo abbia in futuro, però al momento realisticamente non è così. Questa affermazione che i rapper sono i nuovi cantautori io la vedo come un auspicio, mi auguro che un domani noi rapper potremo dire che abbiamo avuto lo stesso impatto sulla società che hanno avuto i Guccini, i Lolli, i Pietrangeli ma anche i De Gregori e i Vecchioni. Al momento non è così, ma mi auguro che sarà così un domani”.

Questo tuo ultimo disco ondeggia tra rap e blues, tra Italia e USA, e segna una rotta verso una sonorità nuova. Viaggi su un filo americano dai The Roots ai Rage Against the Machine, incorporando il poetry slam. A proposito, come arrivi al Poetry Slam?
“In realtà il Poetry Slam mi ha tirato dentro, nel senso che alcuni esponenti di questo genere avevano ascoltato dei miei pezzi online, mi hanno chiamato e sono entrato a far parte di questo movimento che mi piace molto e che negli Stati Uniti si muove da parecchi tempo. Negli Stati Uniti non è una novità che i rapper e gli slammer, nel senso di poeti che fanno questo genere, si trovino a collaborare. È un mondo espressivo che mi interessa molto perché il Poetry Slam è poesia performativa, fatta e pensata per essere declamata dal vivo e questo ha molto molto a che fare con il rap. I poeti slam assomigliano ai partecipanti delle Battle che ci sono tra MC e questo mi interessa molto. Si sta lavorando in maniera intensa a questo scambio anche qui in Italia, ne vedremo delle belle”.
Parli di scambi Italia-USA tra testi, poesie, musica con occhi diversi. Non è che c’è qualcos’altro in ballo?
“Per quanto riguarda il filo tra Italia e Stati Uniti penso di potertelo dire on the records: stiamo lavorando a qualcosa di molto importante, la traduzione e l’uscita del libro Resistenza Rap negli USA. Ci sentiamo quotidianamente con il mio editore italiano, Luigi Politano di Round Robin, stiamo lavorando a una traduzione che sia un’operazione culturale per fare arrivare al lettore statunitense anche il contesto e il senso dell’opera. Siamo in una fase abbastanza avanzata della trattativa e spero di poter confermare tutto a breve. Spero che la prossima volta che ci vedremo sarà a New York per la presentazione del libro”.
Per chiudere l’intervista, nell’introduzione del tuo libro “Tre minuti ed in una canzone ci metti una storia che può durare un attimo o una vita”. Qual è la tua canzone di vita?
“Sicuramente la mia canzone preferita e che mi rappresenta di più è l’ultima che ho scritto. Se volessi scegliere una canzone di una canzone di qualcun altro che mi rappresenta direi N.Y. State of Mind di Nas o Canzone delle domande consuete di Guccini. Nel mezzo c’è un mondo e in questo mondo ci nuoto io”.
In queste settimane Kento è in tour in Italia. La prossima data è in programma il 28 marzo al Teatro Lo Spazio di Roma.
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