A Mother’s Heart, precedentemente portato in scena a Roma, è uno spettacolo teatrale che arriva per la prima volta negli Stati Uniti. Ospitato dallo spazio Stella Adler Studio of Acting di New York dal 4 al 6 novembre, scritto dalla triestina Daniela Dellavalle, curato nella versione americana dalla regia di Kathy Gail MacGowan, prodotto da Selamawit Worku, e interpretato dalle bravissime Tania Kass, Alice Lussiana Parente e Maite Uzal, è un progetto interessante che indaga certi sentimenti estremi, mentre si muove all’interno del difficile e controverso tema della pena di morte.
Una sfida avvincente che si raddoppia considerando il paese dove viene lanciata ora. Un tema ancora molto delicato che qui viene elaborato insieme ad altri interrogativi esistenziali di cui non si parla mai abbastanza. A muovere le fila della pièce, scrive l’autrice Daniela Dellavalle, è un’unica fondamentale domanda: “Se la perfezione di un rapporto è determinata dall’amore, può l’amore stesso determinare l’imperfezione di un rapporto? E così si parla di amore imperfetto, incondizionato, amore fine a se stesso”.

Siamo nel reparto psichiatrico di un penitenziario giudiziario, in un paese dove è ammessa la pena di morte. Una figlia, una madre, una psichiatra. Un omicidio e una perizia. La diciottenne Mary (Alice Luissiana Parente) ha ucciso suo padre e tentato di uccidere sua madre, Mrs. Phyllis (Maite Uzal), la quale non si arrende alla crudeltà di un possibile verdetto che condannerebbe sua figlia. Mary dichiara di odiare i suoi genitori, perché nessuno le vuole credere? Quali sono le sue vere intenzioni? È possibile amare ancora una figlia quando sembra non aver mai provato amore?
Il palco diventa una scatola buia dentro alla quale prende vita un thriller psicologico. Tre donne si studiano, si leggono, si ritrovano costrette a conoscere se stesse e le proprie emozioni più estreme. Il ritmo è sostenuto e accompagnato da una musica che crea ancor più suspense. C’è qualcosa di inspiegabilmente attraente che tiene lo spettatore ipnotizzato come se si stesse tutti aspettando qualcosa, un verdetto, una spiegazione, ma nessuno è sicuro che arriverà.
“L’obiettivo è quello di raccontare una storia e lasciare l’interpretazione nelle mani del pubblico come individuo singolo — ci spiega l’autrice — mi piace che le persone si facciano delle domande”. Una preziosa occasione per allenare la mente quindi. Un’intrigante trama costruita intorno ad un equivoco. “Il teatro prima di essere un’arte è un mezzo di comunicazione”, continua Daniela Dellavalle che con il suo lavoro ha voluto anche mostrare l’assurdità di una pratica ancora in uso come quella della pena di morte.
Al centro del discorso c’è l’idea che l’uomo sia perfettibile e non perfetto, e ciò dimostrerebbe come la pena di morte vada contro questa umana natura. Ma il progetto va oltre, indaga una crisi che diventa anche quella dei sentimenti, considerati qui come l’unica arma contro la più tetra delle situazioni. Mai sottovalutarli, nasconderli, o esprimerli per mezzo di cose inutili e inanimate. I discorsi che si aprono poi all’interno, dietro, ai lati, sono infiniti e da collaterali diventano fondamentali e altrettanto urgenti. Quando si scrive accade di creare sempre di più di quello che si immagina, di mettere qualcosa di autobiografico, e il progetto di cui Tania Kass e Daniela Dellavalle sono le fautrici, non fa eccezione alla regola. “Veniamo entrambe da Trieste, una città dove il tema della psichiatria è sempre stato molto vivo — raccontano — pensiamo alla Legge 180 di Basaglia e a tutta la ricerca sui servizi di salute mentale svolti a Trieste. È un tema che ci tocca da vicino. E poi, si sa che chi scrive è un ladro di aneddoti”.
Uno stesso testo che trova una diversa chiave di lettura nell’adattamento americano di Kathy Gail MacGowan. Non solo entra in gioco un’impegnativa traduzione, ma soprattutto vengono sollevate diverse domande rispetto all’esperienza italiana, generando così un altro risultato e dei personaggi lievemente differenti. Lo sguardo americano mostra un realismo teatrale più estremo, una specificità quasi maniacale riguardo alla realtà delle situazioni e alla divisione di cosa è buono e cosa non lo è, almeno rispetto a questo percorso. Qualcosa cambia: il teatro non viene utilizzato per portare lo spettatore in un mondo che non c’è ancora ma che potrebbe esserci, ma per mostrarne direttamente uno che si cerca di definire mentre si costruisce.
Il bello però è che nonostante le differenze c’è una similitudine lampante che diventa rassicurante: tutti allo stesso modo abbiamo un gran bisogno di trovare una giustificazione ad ogni gesto, anche il più cruento. Un affare estremamente umano, e questo testo lo mostra bene. Accettare che qualcosa non possa essere spiegato o che, peggio, la spiegazione sia molto semplice, lascia un senso di smarrimento un po’ a tutti. Una faccenda risolta come non avremmo voluto, non pare forse incompiuta?
Come nella realtà, non c’è alcuna risposta né giudizio né morale in questa rappresentazione, ognuno è libero di vederci quello che vuole, di portarsi via la propria piccola illusione. E forse è proprio per questo che A Mother’s Heart racconta una storia che potrebbe essere quella di tutti.