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October 18, 2016
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Migrazioni, mobilità e nuovi nomadismi

Aumentano i giovani italiani che scelgono di non restare e diventano portatori sani di italianità

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
migrazioni
Time: 4 mins read

Digito la parola “migrante” sul mio smartphone. Lo faccio ascoltando le parole S.E. Mons. Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Fondazione Migrantes, durante la presentazione dell’XI Rapporto sugli Italiani nel Mondo, quando sentenzia che oggi si deve parlare “non più migranti ma di viaggiatori”. Tra le parole che Google suggerisce da affiancare a “migrante” nella ricerca, appaiono “morto” e “affogato”. L’algoritmo nascosto e pensato da qualche anonimo ingegnere suggerisce queste macabre accoppiate più probabili.

Se scrivo viaggiatore, invece, suggerisce mondo. Quell’algoritmo, che immagino funzioni per affinità e frequenza, propone un duplice ruolo quello del migrante che incontra le sofferenze, probabilmente la morte, e quello del viaggiatore del mondo, global player, uomo d’affari, turista, cercatore di nuove esperienze.

Dico tutto questo a partire dai temi che un grande lavoro come quello del RIM (Rapporto Italiani nel Mondo), curato da Delfina Licata, racconta. Ricordiamo che la sua recente pubblicazione ha ottenuto un’importante attenzione mediatica: titoli e prime pagine dei quotidiani nazionali, diffusione nei maggiori TG televisivi e alla radio, nonché nei programmi del cosiddetto infotainment (informazione e intrattenimento al medesimo tempo). Il tema che ha catturato la stampa è stato quello dei giovani italiani che continuano ad andarsene sempre più numerosi, soprattutto dalle regioni italiane che hanno un reddito procapite più elevato: Lombardia e Veneto.

Ma il tema di cui tratto qui è la mobilità contemporanea. Il Rapporto, oltre a raccontarci quantitativamente e qualitativamente la  presenza italiana nel mondo, è, a mio avviso, un testo straordinario sulla mobilità italica globale o come si scrive dei “portatori sani di italianità”.  Non a caso parte da un possibile significato che papa Francesco dà alla parola felicità: la divano-felicità, quella per la quale si è portati a “credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri… un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci”. La motivazione è da ricercarsi nell’alternativa che lo stesso papa propone: “non farsi rubare la libertà”, “andare per le strade seguendo la ‘pazzia’ del nostro Dio” ad “incontrare l’altro”, tanto da farci richiamare alla mente Steve Jobs e il suo “stay hungry, stay foolish”. La mobilità vs la paralisi, caratterizzate dal rischio e dalla libertà la prima, dalla sicurezza, solo apparentemente, la seconda.

L’invito è quindi all’azione, ad incontrare la vita, come massima esperienza di conoscenza del mondo che deriva dalla mobilità. Incontrare e scontrarsi con le proprie paure e con quelle diffuse socialmente, perché il rischio è connaturato con la mobilità. Si può prendere un aereo e trovare un pazzo che decide di ammazzarsi con passeggeri al seguito, una nave da crociera nel Mediterraneo che finisce contro uno scoglio, oppure andare ad un concerto e  morire per mano di un terrorista. Il fondamentalismo, non a caso, attacca la nostra libertà di mobilità non la nostra stanzialità, perché sa che quella fa sempre più parte della nostra identità.

Questa estate 2016 ci siamo accorti, nel giro di un mese, che non siamo al sicuro in una strada di Nizza, che inizialmente sembrava controllata,  e a casa al riparo sotto il nostro tetto, che, cadendo per la forza di un terremoto, diventa uno spietato killer. Non ci sono ripari più sicuri, ma comportamenti in grado di rendere la mobilità più attenta ai rischi che mano a mano incontra. E’ per questo, ad esempio, che il governo francese ha rilasciato un applicazione da scaricare sul proprio cellulare che avverte in tempo reale di un possibile attentato, di un’operazione antiterrorismo in corso, di un attentato avvenuto, in modo che le persone si dirigano autonomamente verso altri luoghi, preservando però la loro mobilità.

In altre parole, quelle per esempio dei sociologi Elliot e Urry, le nostre vite sono sempre più “vite mobili”, portate naturalmente ad attraversare confini, che si tratti di profughi, uomini d’affari, turisti o studenti Erasmus. Qualcun’ altro parla di “era delle migrazioni” (Castles, Miller 2012). Forse sarebbe meglio dire una “nuova era delle migrazioni” successiva a quelle di massa di fine ‘800 e primi del’ 900, caratterizzata da una forte diversità di interessi, desideri, obiettivi. Basta dare uno sguardo veloce alle nazionalità delle vittime coinvolte negli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 (19 non francesi, contro i 6 non italiani dell’attentato alla stazione di Bologna di trentacinque anni prima) per capire indicativamente e seppur con beneficio di inventario, questa nuova e continua interazione transnazionale.

E’ un percorso che possiamo vedere anche nei cicli lunghi storico-sociali: una transizione dalla società stanziale che va dall’invenzione dell’agricoltura alla formazione degli Stati-nazioni, e che dura da oltre 10.000 anni, verso una nuova società nomade (Attali 2006), che mette a rischio l’essenza e il senso dello Stato-nazione stesso.

La differenza sostanziale tra le attuali forme di mobilità è tra quella come scelta (diritto di migrare o di mobilità) e quella come obbligo (diritto di restare).  La questione dell’obbligo non si pone solo a chi scappa dalle guerre e dalle carestie ma anche ai giovani italiani più preparati presi più dal dubbio “se restare”, piuttosto che “se partire”. Come ho già avuto modo di dire, una certa forzatura nel partire non è un male assoluto se non si tratta di violenza o altro. Un malessere, una crisi avvertita nel proprio paese è una forte spinta a partire, a conoscere l’altro, altre lingue, altre culture. Molto meglio della divano-felicità.

La mobilità è rischiosa, come abbiamo visto, ma appare come l’unica vera  carta da giocare in un mondo dove venti di guerra sembrano soffiare sempre più forti. Cosicché ad ogni passo, consapevoli che “la diritta via era smarrita”, ci muoviamo verso un abisso,  e mano a mano che andiamo avanti ci assale la consapevolezza che la condizione peggiore sarebbe stata quella di rimanere fermi.

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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