Sono passati vent’anni da quando la testa riccia e le parole volteggianti di Max Gazzè si affacciarono per la prima volta su un grande palco italiano, aprendo i concerti di Franco Battiato con brani del suo album d’esordio, Contro un’onda del mare. Ne sono passati 17 dalla prima partecipazione al Festival di Sanremo, nella sezione Nuove proposte (si classificò all’ottavo posto). Di Sanremo nel frattempo ce ne sono stati altri tre e oggi Max Gazzè porta in tour il suo decimo lavoro, Maximilian, album uscito nel 2015 in cui l’artista svela il suo alter-ego più pop.
Dopo la tournée europea, adesso è ora di sbarcare oltreoceano. Due date in Canada, e poi Max Gazzè arriverà negli States dove suonerà a Chicago (lunedì 10 ottobre), a New York (mercoledì 12), Boston (giovedì 13), Miami (venerdì 14) e Los Angeles (domenica 16).
Mentre arrivava la notizia che Ti sembra normale, il terzo brano di quest’ultimo album ha ricevuto la certificazione FIMI Disco di Platino, lo abbiamo raggiunto al telefono in sala prove, dove si preparava al tour americano.
Tournée Americana. È la prima volta?

“Oltreoceano sì, è la prima volta e sarà sicuramente una bella avventura. C’è anche la gioia di partire e girare in posti rock and roll [ride]: andremo a suonare nei club, nei locali, posti più raccolti. In Italia abbiamo fatto tournée con grandi palchi, grandi scenografie. Qui invece sarà una dimensione molto più ridotta, ma è una dimensione che a me piace molto: sono cresciuto nei club e sono contento di rifare in America quello che ho fatto per anni in Italia, agli esordi. Stiamo facendo le prove per riarrangiare un po’ la scaletta e fare cose pensate per quella dimensione”.
Come viaggerete?
“Viaggeremo un po’ in pullman e un po’ in aereo… Lo spirito è molto on the road”.
Che rapporto hai con la cultura e in particolare con la musica americana? Hai qualche mito?
“Mito direi di no. Sono cresciuto ascoltando tanti generi musicali diversi e sicuramente c’era tanto di quella cultura americana che è approdata in Europa, a partire dal jazz, che era quello che suonavo agli inizi. Però ho dei riferimenti più inglesi che americani: ho vissuto in Inghilterra, suonavo con una band inglese [4 play 4, nda]. Ovviamente la musica americana la conosco bene, fa ormai parte della nostra cultura. Dagli anni ’50 in poi la musica americana in Italia ha anche in parte sostituito quella che sarebbe stata la naturale evoluzione della musica tradizionale. Ha avuto un impatto molto forte”.
E la consideri una cosa positiva o negativa?
“Positiva perché abbiamo più termini di confronto. C’è anche chi continua a fare musica tradizionale che nasce dalle regioni italiane, la musica sarda, siciliana, del Salento, ma abbiamo anche una fortissima influenza dall’America. No, non lo trovo un fatto negativo: è una possibilità di creare delle misture tra la cultura tradizionale italiana e una cultura che è invece importata e che però fa ormai parte della nostra cultura”.
Il 12 sarai a New York. È una città che ti piace?
“È una città che mi ha sempre dato grandi stimoli, e mi piacerebbe sperimentare il viverci. Ho vissuto in Inghilterra, ma adesso non tornerei a vivere a Londra. In Europa andrei a vivere a Berlino. Tra le città americane New York è quella che mi appartiene di più. È una città strepitosa, con tutte le misture, le culture… A me piace la contaminazione tra culture, vedere, identificare, il modo di crescere dei vari luoghi. E New York è luogo di smistamento di queste culture”.
A proposito di vivere all’estero. Dopo il Belgio, l’Inghilterra e la Francia, tu sei tornato a vivere in Italia negli anni ’90. Cosa ti ha attratto dell’Italia di allora?
“Per me venire a vivere in Italia era un po’ un tornare a casa. Ho cominciato a vivere la cultura italiana da quegli anni in poi. E ho trovato un terreno molto fertile. Ho avuto la fortuna di frequentare i luoghi giusti al momento giusto e anche delle persone e degli artisti che sono cresciuti in questi anni con me. C’è stata un’ascesa positiva da quando sono tornato in Italia. Il terreno era più fertile allora di quanto non lo sia oggi”.
Oggi rifaresti la scelta di tornare a vivere in Italia o ci ripenseresti?
“La difficoltà ad emergere nella musica che c’è oggi non è una cosa che riguarda solo l’Italia: sono cambiate tantissime cose. Allora c’era un terreno più fertile per band che venivano dalle cantine. Adesso c’è un altro modo di emergere, per esempio i talent show. È molto penalizzato invece il percorso di chi vuole crescere e avere una progettualità negli anni. Oggi c’è il tutto e subito, si cerca di spremere al massimo quello che c’è per poi gettarlo nel cassonetto e sostituirlo con quello che ci sarà l’anno dopo. Gli operatori del mondo della musica hanno difficoltà a investire su progetti più di lungo periodo. All’epoca era invece l’unico modo per costruire il percorso di un artista. Adesso ci sono tanti fenomeni, ma è difficile identificare la peculiarità di un artista e fa più scalpore l’estetica che l’arte. Adesso per esempio c’è il bel canto… Ma quello è un modo di cantare. Con questi standard, uno come Bob Dylan avrebbe fatto difficoltà ad emergere nei talent”.
Dicevi che in questi anni sei cresciuto insieme ad altri artisti. Con alcuni di loro hai anche collaborato. Tu sei un po’ l’uomo delle collaborazioni: ne hai avute tantissime. Cos’è che ti piace di questi progetti condivisi?
“Probabilmente ha anche a che fare col fatto che sono cresciuto suonando come bassista, un ruolo con cui era più difficile cantare intorno al fuoco sulla spiaggia [ride]. Ho sempre suonato con altri musicisti. Questo incidente di percorso ha fatto sì che continuassi a sperimentarmi insieme ad altre persone che possono crearmi degli stimoli. La contaminazione tra artisti è necessaria per poter evolvere. Sono curioso e questo mi spinge a indagare la musica e la mia percezione della musica attraverso la contaminazione. Tutte le collaborazioni che ho fatto finora, dagli artisti più famosi a quelli meno famosi, sono sempre nate da momenti spontanei, non c’è mai stata una cosa costruita a tavolino. Anche il tour con Fabi e Silvestri è nato dalla voglia di vedersi, in cantina, e scrivere delle canzoni insieme. Non avevamo un percorso discografico, non c’era l’idea di creare qualcosa che dovesse diventare quello che poi è stato. La collaborazione è un atto creativo molto interessante”.
In questi più di vent’anni e dieci album, come è cambiato l’approccio che hai nei confronti del tuo lavoro?

“Il mio modo di interpretare la musica, viverla, crearla e suonarla è inevitabilmente – e per fortuna – cambiato. Come cambiano le persone, così cambia il loro modo di gestire la creatività o di tradurre un atto sublime come la creatività in artefatti diversi. Non è il tempo che fa cambiare, è il cambiamento che avviene nel tempo. Mi accorgo che tutta la mia esperienza, quello che sono stato, lo sommo, lo mescolo e lo comprendo nel mio modo di vivere ed essere adesso. E allo stesso tempo guardando con rispetto e accettazione ad alcune delle cose che ho fatto in passato e che magari non rifarei allo stesso modo, perché in quel momento avevano un senso. Se adesso quelle cose lì le faccio in maniera diversa, è perché per me il senso è cambiato”.
Mi fai un esempio?
“Voglio dire che se avessi fatto ieri il mio primo disco sarebbe stato attuale ieri. É naturale che in momenti diversi si interpreti in modi diversi il comporre musica. È un parametro difficile, non so se uno cresce in meglio o in peggio. L’importante è sentirti che cresci e cambi”.
Quando scrivi le tue canzoni hai in mente un pubblico?
“No, assolutamente no, anche perché il pubblico cambia in base al contesto. Se uno ascolta una mia canzone una mattina in cui è nervoso, agitato, incazzato, magari in quel momento non è in grado di cogliere il significato di quello che voglio trasferire. Se invece uno l’ascolta molto attentamente rischia di interpretare un significato più profondo di quello del momento creativo da cui quella canzone è nata. Il processo creativo si compie nel momento in cui io faccio una cosa e tu l’ascolti e ti emozioni. Quindi sei tu un’opera d’arte, come lo sono io che traduco la creazione in percezione dell’arte. Ma l’artefatto è solo un mezzo di trasporto”.
Di recente hai iniziato anche a recitare. Come ti ci trovi?
“É un altro modo di tradurre la mia essenza artistica. Mi piace la recitazione, ho sempre fatto teatro, non in maniera costante, ma fin da ragazzo. Sono forse uno dei pochi italiani che conosce tutti i Monty Python a memoria, perché vivendo in Inghilterra con quei cialtroni dei miei amici inglesi [ride] rifacevamo tutti gli sketch della BBC, ci divertivamo a fare dei video. Adesso mi è capitato di fare dei film, uno con Rocco Papaleo [Basilicata coast to coast, nda] e un altro che uscirà a breve. Quando c’è l’occasione, la possibilità e il tempo, e se mi piacciono la sceneggiatura e il ruolo, lo faccio volentieri, mi diverte, mi stimola ed è un’esperienza diversa. Ma non è il mio lavoro, non devo farlo per forza e posso permettermi di scegliere cose che mi intrigano”.
L’anno prossimo farai cinquant’anni. Come la vivi la questione età?
“Io penso che la vita stessa è uno stato mentale, come diceva Peter Sellers nel film Oltre il giardino. L’età pure è uno stato mentale. Il sentirsi cinquant’anni… uno può essere cinquantenne pure a trent’anni se fa una vita di grigiore. Io che faccio una vita molto colorata, a cinquant’anni… sono finalmente giovane, perché sono più cosciente e consapevole della vita e quindi sono pieno di energia”.
Ti senti italiano come artista?
“Quando stavo fuori dall’Italia uno dei modi per ricordare l’Italia, la mia lingua il mio contesto era attraverso le canzoni. Ascoltavo Guccini, De André, i cantautori italiani. E oggi il lavoro che faccio sulla ricerca delle parole, il suono, le assonanze, le rime e i significati, lo faccio con la consapevolezza della lingua italiana. E probabilmente chi è cresciuto in Italia o in un contesto italiano lo capisce meglio, uno straniero magari arriva fino a un certo punto. Perché la lingua nasconde dei significati che fanno parte della cultura e dell’esperienza italiane. Io parlo anche francese, ma non è comunque facile per un italiano capire il mondo della poesia di Mallarmé o di Baudelaire. O Shakespeare: probabilmente è impossibile per un italiano capire a fondo il significato dello scritto o della recitazione shakespeariani. Quindi sì, mi sento italiano, mi sento di cantare in italiano e la mia musica appartiene alla cultura italiana”.