Nella seconda metà degli anni Cinquanta l’ascensore del nonno funzionava a dieci lire, esattamente quelle che servivano a me. Ma me ne occorrevano tante, veramente tante. Così mi ero messo d’accordo con Paolino, il portiere dello stabile. Gli davo tre monete da cento, tolte alla mia paghetta settimanale di cinquecento lire, e lui mi consegnava il sacchetto con dentro le monetine da dieci, trenta in tutto. Questo accadeva ogni fine settimana, ma poiché fidarsi è bene e non fidarsi è meglio, io aprivo subito il sacchetto e mi mettevo a contare le monete, una alla volta, scoprendo che spesso Paolino si era sbagliato a fare i conti, sempre a suo favore, naturalmente.
Erano belle quelle monete da dieci lire che avevano la spiga di grano su un lato e l’aratro sul retro, immagini simbolo di un’Italia contadina molto lontana da oggi. Con quel sacchetto tra le mani, nei pomeriggi dopo scuola, imboccavo la salitella che, da casa mia, portava in piazza Nicoloso da Recco, passavo davanti alla parrocchia di Santa Marcella e poi scendevo giù, verso via Beltrami.
Il distributore delle gomme americane si chiamava Maxima e stazionava fisso davanti alla farmacia del papà del mio amico Carlo. Era invitante come un gelato al cioccolato e luminoso come il sorriso della mamma, quando cucinava la pasta al forno alla pugliese. Era davvero bellissimo quel gran parallelepipedo di vetro con dentro centinaia di palline colorate.
Io infilavo la moneta nell’apposita fessura e poi giravo la manopola, in senso orario. L’ingranaggio dentato veniva messo in rotazione, con l’effetto di far girare la base orizzontale metallica nella quale erano praticati due fori del diametro solo un po’ più grande di quello della pallina di gomma che rotolava giù e si incanalava veloce lungo un breve percorso che la portava dentro la buchetta protetta da una saracinesca a perni, per impedirle di rotolare per strada.
Poi mi bastava alzare con un dito la saracinesca e afferrare la pallina che finiva dopo un solo istante nella mia bocca spalancata e, mentre iniziavo a masticare, guardavo con la coda dell’occhio la meravigliosa figurina che stava uscendo dalla parte opposta del dispenser. Era quello il mio vero obiettivo, non la gomma americana in sé. Era una figurina di cartoncino pesante, con un formato di circa sei centimetri per dieci. Su un lato c’era l’immagine del calciatore, in bianco e nero. Il tipo era inquadrato a mezzo busto e guardava sempre verso l’alto, con lo sguardo rivolto al cielo. A volte sorrideva, altre no. Ma lo sguardo al cielo restava fisso per tutti.
Sul retro c’erano le informazioni. Età, altezza, peso. E poi tutte le squadre in cui aveva giocato e i goal realizzati. Ogni settimana giravo la manopola per trenta volte, con il risultato di ottenere trenta nuove figurine e trenta gomme. Di quest’ultime ne masticavo quattro o cinque. Le altre le consegnavo al farmacista che in cambio mi dava un consistente cartoccio di pescetti di liquirizia, prima di rimettere le gommine avanzate nel distributore.
Con il mio sacchettino di pescetti e le trenta figurine tra le mani, tornavo finalmente a casa e andavo ad aprire le mie due grandi scatole. In una c’erano i giocatori di tutte le squadre di calcio di serie A. C’erano davvero tutti, dai famosi juventini Sivori e Charles agli interisti Skoglund e Angelillo, dai fiorentini Hamrin e Albertosi ai miei amati romanisti Manfredini e Ghiggia. Nell’altra scatola invece c’erano invece le principali nazionali straniere: il Brasile, l’Inghilterra, la Germania, l’Argentina, l’Austria e qualche altra che adesso non mi ricordo più.
La nazionale italiana invece non c’era, perché decidevo io, di volta in volta, i giocatori da convocare. Il gioco che mi ero inventato era un campionato speciale che facevo da solo, sul grande tappeto verde della mia camera. Le porte le avevo realizzate con il Meccano, il campo era illuminato da una grande lampada presa in prestito dalla scrivania di mio padre e la palla era un tondino di carta compressa e avvolta da nastro adesivo trasparente. Disponevo i giocatori delle due squadre sul campo, annunciavo le formazioni nell’ìncavo della mia mano sistemata a mo’ di altoparlante e aveva subito inizio la partita. Mentre giocavo, tenendo con la mano destra i calciatori di una squadra e, con la sinistra, quelli dell’altra, facevo la telecronaca dell’incontro e anche le esclamazioni del pubblico sugli spalti. Insomma il prodotto era completo, altro che Sky odierno, anche se mia nonna e i miei genitori, sentendomi parlare e gridare da solo dall’altra parte della porta, avranno spesso pensato che quel ragazzino non avesse tutte le rotelle a posto. Non era ancora tempo di psicoanalisti a go-go come oggi ma se lo fosse stato, sono convinto che avrebbero subito consultato qualche bravo strizzacervelli per risolvere i miei problemi.
A fine partita appuntavo il risultato dell’incontro su uno quadernetto e il campionato andava avanti così, giorno dopo giorno. Tanti sono stati i miei campionati in quegli anni e tanti i quaderni che ho riempito di classifiche e risultati, mentre i miei giocatori in bianco e nero scorazzavano felici su quel soffice tappeto verde. Non erano ancora nate le figurine Panini che debuttarono solo nel 1960, mentre invece esisteva già il Subbuteo, inventato nel 1947 dall’ornitologo inglese Peter Adolph ma restò confinato in Gran Bretagna, approdando in Italia solo negli anni Settanta.
E io, invece, giocavo già “a figurine”. Si, perché lo chiamavo proprio così quel gioco inventato da un ragazzino figlio unico che, ignaro delle play station, dei videogiochi, dei computer e dei telefonini ultra accessoriati riservati ai ragazzini del futuro, si divertiva un sacco anche da solo, nei pomeriggi d’inverno, dalle parti del quartiere Miani, a Roma.
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