Nel nostro sistema politico, i partiti concorrono alla formazione del ceto di governo a livello centrale e periferico. L’evidenza del loro ruolo l’abbiamo in parlamento, dove i gruppi politici che votano o tolgono la fiducia al governo, approvano modificano o respingono le leggi, sono il riflesso sul piano istituzionale del consenso che i partiti o meglio i loro leader, riescono a raccogliere nell’elettorato. Nonostante la profonda crisi di identità che negli ultimi trent’anni ha colpito il sistema dei partiti italiani (ma il fenomeno ha toccato anche altri paesi), questo ha avuto la capacità di restare al centro del sistema istituzionale e di potere. L’esempio di Matteo Renzi, primo ministro non perché votato ad esserlo in regolare tornata elettorale, ma perché, eletto segretario generale del suo partito si è affrettato a rivendicare la poltrona di palazzo Chigi occupata dal collega Enrico Letta, ne è una riprova.
Questa capacità di controllo della cosa pubblica, si attua anche se i cittadini, diversamente da quanto accaduto sino agli anni ottanta, non militano più nei partiti né li finanziano, o almeno non lo fanno come un tempo. Si perpetua anche se molti ravvisano nei partiti attuali, rispetto al passato, l’abbassamento del tasso di ideali e il corrispondente innalzamento degli appetiti individuali. Si rileva, per inciso, che se così davvero fosse, i partiti dovrebbero chiudere, perché la loro natura, anche per come rileva nella Costituzione repubblicana, non prevede lo svolgimento di simile copione. Sono chiamati a concorrere all’interesse pubblico, non a quello privato.
E’ certamente una delle cause della crisi della nostra politica, il fatto che i partiti, chiamati a dare sostegno alle istituzioni repubblicane, si siano troppo spesso tramutati in obiettivo contributo all’inceppamento di dette istituzioni (si guardi il caso Roma-Raggi-5 Stelle di questi giorni). Avrebbero dovuto contribuire, ad esempio, alla formazione e alla selezione del personale politico da mettere a disposizione delle istituzioni repubblicane (e lo hanno fatto in certe stagioni, decenni fa), e al contrario danno l’impressione all’opinione pubblica di immettere nelle istituzioni persone con sempre minori capacità e vocazione per la cosa pubblica, in cerca di potere e prebende.
Non c’è dubbio che una delle ragioni per le quali i partiti appaiano incapaci di realizzare appieno la loro funzione istituzionale, risieda anche nel fatto che sempre di più (si richiama nuovamente il caso Roma, con le divisioni tra direttorio locale, vertice del movimento/partito, eletti in Campidoglio) invece di operare in modo unitario per fornire al paese ricette risolutive dei problemi, trascorrano il tempo a dividersi, spaccarsi e frantumarsi, creando fazioni, correnti, gruppetti.
Tra i risultati certi di questi processi frazionisti: la pletora di leaderetti e dirigentucoli seguiti da codazzi di corifei e servi, il proliferare di sedi giornali burocrazie con costi collegati, il lievitare di occasioni di corruzione e arricchimento illecito, lo scadere ulteriore dell’etica politica e partitica, il continuo rinvio del lavoro politico “vero” di soluzione dei problemi della gente.
Tra i risultati incerti: più dialettica interna e più idee in circolazione, ampliamento dell’offerta al consenso esterno, costruzione di alternative al controllo del partito.
Come capita sempre, i risultati certi finiscono per prevalere sugli incerti, in particolare nella considerazione delle opinioni pubbliche. Il frantumarsi continuo della politica è una delle ragioni del suo progressivo scadere nella considerazione degli italiani, dell’allontanamento popolare dal voto e dalla partecipazione alla vita pubblica. Il politico viene vissuto come qualcuno che bada a soddisfare le proprie ambizioni prima di ogni altra cosa, che si mette contro l’interesse del suo partito (del leader pro tempore), perché è ambizioso e vuole detenere un feudo e imperarvi. Sta di fatto che nessuno dei partiti maggiori di questa fase storica, è esente dal divisionismo. Democratici, pentastellati, forzaitaliani, leghisti sono tutti in preda a convulsioni interne, incapaci di sintesi che li propongano alle opinioni pubbliche come portatori di un progetto condiviso di società.
La gente commenta: se non sono capaci di elaborare al loro interno una proposta nella quale riconoscersi, su quale modello di paese pretendono da noi consenso? E ancora: se il leader non è in grado di tenere unito i suoi, come può pensare di tenere unito il paese intero?
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Certo che la vita politica vive di divisioni e che i partiti da sempre si dividono al loro interno, oltre che dividersi al loro esterno, tra partiti rivali. Però quell’essere “parte” che è costitutivo del partitismo, non dovrebbe vivere tanto nei rapporti interni quanto nel rapporto esterno. Detto in altro modo, è giusto e persino auspicabile che ci sia competizione dentro un partito, ma questa non può andare oltre certi limiti, visto che l’avversario “vero” da battere nella competizione è l’altro partito, non il competitore interno.
Restano due domande: su cosa ci si divida all’interno, e per quale fine. E ancora: quante possono essere le divisioni accettabili senza che diventino distruttive?
Cominciamo dalla seconda domanda, che ha la risposta più semplice. Se un partito diventa il luogo della guerra di tutti contro tutti non è più un partito. Un tempo, quando i partiti avevano democrazia interna, si celebravano, a norma di statuto, assemblee e congressi. Venivano preparati da riunioni periferiche, per territori o settori (nuclei aziendali, ad esempio) alle quali partecipavano iscritti e simpatizzanti. Si eleggevano delegati, che avrebbero portato al centro le posizioni emerse. I capi corrente/frazione si presentavano ai congressi con delle mozioni, le illustravano e le mettevano ai voti. Come si diceva all’epoca, ci si contava. Chi aveva la maggioranza prendeva in mano il partito, gli altri facevano minoranza. Le correnti non raggiungevano mai un numero esorbitante, altrimenti non avrebbero avuto nessuna capacità di influenzare la formazione delle posizioni che il partito avrebbe poi portato in parlamento o al governo. Oggi questi processi non avvengono, le divisioni sono eccessive e quasi sempre immotivate sul piano politico.
E qui la risposta alla prima domanda. Dietro il proliferare delle innumerevoli frazioni, appaiono anche, se non soprattutto, ambizioni e interessi personali. Spesso si subodorano veri e propri ricatti, scambi di favore per creare o non la posizione organizzata contraria al leader, gruppetti che non hanno come fine il cambio di linea politica del partito ma assumere lo spazio che un altro gruppetto concorrente ha nel frattempo occupato. In politica persino il potere e il comando sono un mezzo per realizzare qualcosa. Qui appaiono come fini in sé.
Giusto vent’anni fa su “i conflitti interni ai partiti” Stefano Bartolini fece un’ottima lezione, ora reperibile nel generoso sito della Treccani dedicato all’enciclopedia delle scienze sociali. Merita di essere riassunto, perché pienamente attuale.
Dopo aver sviscerato i casi di divisione partitica quasi obbligata (centro-periferia, gruppi parlamentari-dirigenza di partito, partito come governo-partito come gruppo parlamentare), l’autore passa a confrontarsi con la questione “che oppone il partito coeso al partito frazionalizzato”. Inizia con una considerazione positiva: “I conflitti di gruppo possono essere la base e lo strumento della circolazione delle élites, influenzare la percezione del partito da parte dell’elettorato, determinare la vita delle coalizioni parlamentari, addirittura surrogare in parte… la mancanza di effettiva alternanza governativa”.
Va quindi sulle controindicazioni: “… riconoscere che l’interazione competitiva e il conflitto tra gruppi è alla base della vita dei partiti non equivale a dire che anche il frazionismo e le correnti lo siano. Anzi … queste ultime sono percepite come una degenerazione patologica e disfunzionale del primo”.
La successiva distinzione è da manuale, quando afferma che due sono i modi di dialettizzare interni ai partiti: “frazioni ideologiche (o tendenze) e frazioni di potere (o fazioni)”.
Per l’appunto, quando ci si confronta con le divisioni odierne la sensazione precisa è che ci si trovi nel secondo caso, quello di fazioni che si affrontano per mere questioni di potere, tanto più che, come scrive l’autore, siccome questo secondo caso non piace a militanti ed elettori, il “fenomeno del camuffamento dei fini” diventa d’obbligo. L’autore spiega i criteri attraverso i quali sarebbe possibile capire se ci si trova, nel dibattito frazionistico di un partito, di fronte al primo (tendenze politiche) o al secondo (frazionismo di potere). Chi volesse potrebbe facilmente approfondire anche attraverso l’antologia che Giovanni Sartori dedicò al tema mezzo secolo fa (Correnti, frazioni e fazioni nei partiti politici italiani, Il Mulino, 1973).
Interessa, nel pensiero espresso da Bartolini, a sostegno di quanto affermato in apertura, la considerazione sugli effetti del frazionismo: “Tra le conseguenze negative del fenomeno vi è la diminuita capacità di coordinamento del partito come attore unitario, e la minore stabilità della leadership e dei governi. Inoltre, l’accesso autonomo delle fazioni alle fonti di finanziamento provoca facilmente degenerazioni clientelari e corruzione.”. Insomma, alla Nanni Moretti: “Facciamoci del male!”.
Il fenomeno del “fazionismo di potere”, in particolare, è segnale anche della grande arretratezza della politica italiana, ancora balcanizzata da potentati localistici o collegati a precisi interessi economici e talvolta persino economico-confessionali. Si incrociano, sotto le mentite spoglie di conflitti ideologici o di strategia politica, tutele localistiche, corporativismi economici, degenerazioni personalistiche di ogni tipo.
Non occorre scomodare Francesco Guicciardini, che sul tema comunque ce le canta ormai da mezzo millennio, per aggiungere che il fenomeno del “fazionismo” è anche generato dalla nostra endemica vocazione alla cura del “particulare”. La ragione pessimistica del nobile fiorentino puntava al fatto che il politico del suo tempo, pur ricercando il proprio interesse, sapesse anche perseguire il bene comune. Pur proibendosi il sogno dell’amico Machiavelli sul principe “liberatore” e unificatore, il nobile fiorentino attribuiva a quella tendenza naturale del particolarismo, si passi il paragone, il benefico effetto sociale che in economia Adam Smith avrebbe abbinato all’interesse particolare (il profitto) delll’imprenditore.
A guardare, con il dovere del realismo che ci spetta, lo stato della politica italiana, il “particulare” che motiva fazioni e balcanizzazioni nei partiti, nulla ha a che vedere con il bene comune della nazione.