Il tema del “cambio vita” non è solo un topos narrativo. È anche un’aspirazione umana fra le più comuni. E a quanto pare è in continua crescita, lo provano i tanti siti web sull’argomento, che quasi sempre si concentrano su un aspetto ben preciso: cambiare paese, trasferirsi in un altrove che può essere, ad esempio, una grande metropoli come New York, una regione dal clima favorevole come la California, oppure, per chi è in cerca di una vera catarsi, una terra selvaggia. Heroes of the Frontier, il nuovo romanzo di Dave Eggers, il settimo della sua produzione, uscito nel mercato anglosassone lo scorso luglio, tratta di questo. Josie, la protagonista, chiude con la sua vecchia vita, compresi il suo studio dentistico e il suo matrimonio fallito, per trasferirsi – anzi per fuggire – con i due bambini in Alaska.
Siamo, ovviamente, nel solco di una tradizione che più americana di così non si può: da Thoreau a London, fino a Krakauer e a McCharty, il tema dell’immersione nel wilderness è di quelli che ritornano periodicamente. Nella cultura statunitense esso racchiude significati diversi. È certo un modo per sottrarsi alle regole troppo stringenti della società, per essere finalmente liberi, anche di ritrovare se stessi. Ma è al tempo stesso un allargamento dei confini. Gli stessi pionieri che andavano verso il selvaggio Ovest – ereditata dai Padri (Pellegrini) la propensione a cercare altrove ciò che non riuscivano a trovare a casa propria – rappresentavano delle avanguardie. Dietro di loro sono poi venuti tutti gli altri ed in questo a ben vedere risiede il paradosso più importante della “fuga”: chi vuole allontanarsi dai suoi simili, dal loro abbraccio soffocante, spesso finisce per tirarseli dietro. Apre delle piste che altri fatalmente percorreranno, e allargheranno. Lo sa bene Chris McCandless, se per caso ci vede da lassù: la carcassa di autobus che fu il suo ultimo rifugio, sullo Stampede Trail, nel parco del Denali, in Alaska, appunto, è diventata, con il crescere della popolarità del libro di Krakauer e poi del film di Penn, la meta di un incessante pellegrinaggio, da parte di schiere di persone che vogliono emulare le gesta del “supertramp”.

L’atto di cambiare vita in un posto magnifico ma disagevole può condurre però anche ad altri esiti. Qualcuno ricorda Un medico fra gli orsi? La serie televisiva della CBS (in originale Northern Exposure), creata da Joshua Brand e John Falsey, per un totale di 110 puntate, era una sorta di commedia sentimentale deliziosamente trasognata, il cui pregio maggiore consisteva nel raccontare come la frontiera abbia il potere di creare nuove comunità. L’improbabile Cicely, cittadina di 800 anime, nella quale approdava “per errore” il dottor Joel Fleischman, giovane medico ebreo newyorchese, era in definitiva, un microcosmo risolto e magico, nella sua bizzarria. Una sorta di Macondo nel Grande Nord, popolato da gente strana e interessante..
Il romanzo di Eggers si tiene in equilibrio fra questi due poli, che sono poi anche due archetipi, due tipi umani: da un lato il viaggiatore coraggioso, che affronta a viso aperto la natura e tutti i pericoli che essa nasconde, dall’altro il campeggiatore simpatico e maldestro, calato in un mondo che non gli appartiene, e del quale cerca di venire a capo.
La fuga della protagonista di Heroes of the Frontier non è estrema come quella di McCandless, pur essendo spesso altrettanto rancorosa nei confronti dell’American way of life.
Innanzitutto, Josie è una donna, ha due bambini a cui badare, Paul e Ana. Ciò l’obbliga a darsi un minimo di organizzazione, anche se questa organizzazione è sempre sul punto di disfarsi fra le sue mani, lasciandola in balia degli eventi. Josie si muove in camper, un veicolo vecchio e malandato, “the Chateau”, che ha affittato ad Anchorage, appena arrivata dall’Ohio, per un periodo di tre settimane. La molla del viaggio, come in Wild, di Cheryl Strayed, a lungo in testa nella classifica dei best-seller nel 2014, il crollo dei pilastri su cui si reggeva la sua vita precedente. Ad inseguire Josie c’è il fantasma di un amico morto in Afghanistan, della cui sorte si sente in parte responsabile. Poi un grave fallimento professionale: una paziente l’ha accusata di non averle diagnosticato un tumore alla lingua, durante un controllo di routine. Invece di affrontare la causa legale, Josie ha preferito andarsene, mollare.
Non ha mollato però sui figli. Carl, il suo ex-compagno, un uomo inconcludente che dopo essersi separato da lei ha sposato un’altra donna, li avrebbe voluti con sé. Anche questo l’ha spinta a mettersi sulla strada, nello Stato più freddo e remoto degli USA, a bordo di una casa mobile, che l’ex difficilmente potrebbe rintracciare. E qui ritorna il tema della privacy, bene irrimediabilmente compromesso dalla società tecnologica moderna, trattato dall’autore in The circle; se in quel romanzo, che ha fatto parlare di “nuovo Orwell”, il problema erano gli eccessi della trasparenza, in un panorama sociale dominato da una sorta di Google ancora più pervasivo di quello reale, qui è l’esatto contrario. Quanto diritto ha una persona di sparire, di far perdere le tracce? Coinvolgendo altri in questa sua scelta, e magari mettendo a repentaglio la loro sicurezza?
Del resto Josie è senza radici, come tutti i suoi familiari. Solo occasionalmente ha sentito parlare di lontane origini scandinave. Ma “[…] her parents knew nothing about these nationalities, these cultures. They cooked no national dishes, they taught Josie no customs, and they had no relatives who cooked national dishes or had customs. They had no clothes, no flags, no banners, no sayings, no ancestral lands or villages or folktales”.
Josie è anche in guerra contro lo stile di vita che ha condotto fino a poco prima della sua partenza – “a suburban Midwestern life whose manufactured dramas have all but killed her soul”, per dirla con Barbara Kingsolver di The New York Times – e si batte contro un’inclinazione all’alcol che accentua la pericolosa leggerezza di alcune sue decisioni.
Il suo vagare non è del tutto senza meta. C’è un posto che deve raggiungere (e che raggiunge), dove vive una “sorellastra”, persona che non vede da anni e che nella sua testa ha mitizzato. Ma il viaggio in sé sembra sempre più importante della destinazione, nonché di ogni genere di mappa.
Kerouac? Sì, con in più le responsabilità di cui una donna – una madre – deve comunque farsi carico. E questo costituisce l’elemento più intrigante del romanzo, ciò che distingue la protagonista da altri viaggiatori – o di altri fuggitivi – della letteratura. In fondo alla sua coscienza, c’è un lumino che brilla. Che le dice: prima o poi dovrai fermarti. Prima o poi dovrai affrontare le cose che ti sei lasciata alle spalle, se non altro dovrai farlo per i tuoi figli. Mettete, non un semplice ostacolo, ma un “freno” ad una storia di viaggio e non sbaglierete mai. Rain Man insegna.
E poi: come in ogni road trip che si rispetti, anche qui ci sono incontri con personaggi variamente minacciosi, strade sbagliate, ostacoli, sbronze, rabbie e ricordi che invadono la mente con il macinare dei chilometri. Se l‘essenza dell’essere americano è lo sradicamento (come ha raccontato il sociologo Vance Packard nel suo Una nazione di estranei), Josie la riscopre in un luogo che a suo modo è vuoto, dominato dagli elementi naturali, anche se disseminato di resti e relitti che altri esseri umani hanno sparso ai bordi della strada. Un luogo che può essere pericoloso: le foreste attorno al camper sono in fiamme, come le montagne attorno alla cittadina nella quale Richard Ford ambientò uno dei suoi primi romanzi, il bellissimo Incendi. E anche questo è molto americano: la natura, gli eventi naturali, gli animali (la balena!) come formidabile metafora di qualcos’altro. Ma, ha osservato Carolyn Kellogg sul Los Angeles Times, quello di Eggers non è un romanzo simbolico o metafisico. La storia rimane ancorata al personaggio, il motore dell’azione è sempre il suo testardo desiderio di cambiare vita. Nonché il rapporto con due figli che si rivelano i veri protagonisti, pur avendo 8 e 5 anni (o forse proprio per questo), diversi l’uno dall’altra ma complementari: tanto innaturalmente maturo e responsabile il primo quanto selvatica e bisognosa di protezione la seconda.

Eggers ha iniziato a scrivere questo libro 6 anni fa. Un estratto era stato pubblicato nel 2014 sul New Yorker. Ancora una volta l’autore tocca un tema molto attuale, per quanto non originalissimo. Lo fa con una scrittura brillante, a volte ironica, estremamente “narrativa”, che ha perso per strada certe tentazioni postmoderne degli esordi, nonostante fossero state ben accolte.
Eggers come noto è anche impegnato nel sociale, con la sua scuola di lettura e scrittura creativa non-profit 826 Valencia, rivolta soprattutto ai ragazzini svantaggiati, con sedi nel retro di negozi accattivanti (a San Francisco c’è la “casa madre”, dietro un negozio di abbigliamento e gadget per pirati).
Aspettiamo ora la traduzione italiana. E il film che probabilmente ricaveranno da questa storia, come anche da Il cerchio e da altri lavori di Eggers.
Dave Eggers, Heroes of the Frontier, Knopf, 2016. In Italia i libri di Eggers sono pubblicati da Mondadori.