Nel mio quartiere romano del Miani, prima del nostro gruppo dei Mellows, prima degli Ancients di Manuel de Sica, prima del prima del prima del prima, c’era un altro gruppo rock che si chiamava The Sharks, gli squali. Era il 1964 e i componenti di questo gruppo erano tutti più grandi di me di almeno quattro o cinque anni. Provavano i loro pezzi nel piccolissimo garage della parrocchia, quello dove il parroco don Luigi teneva la sua scassatissima Seicento bianca. Massimo, studente di Architettura, era l’incontrastato leader, quello che suonava benissimo la chitarra solista e che decideva i pezzi della scaletta. Ma i pezzi da fare avevano una linea unica e la linea si chiamava Equipe 84.
Gli squali suonavano esclusivamente canzoni dell’Equipe e le suonavano benissimo. Quando tiravano giù la saracinesca del garage ed attaccavano le prove, sembrava che qualcuno avesse messo sul piatto del giradischi l’ultimo long playing del gruppo modenese, per quanto sembravano identici. Il garage del parroco si trovava proprio di fronte a casa mia, a meno di venti metri. Nei pomeriggi dopo scuola io me ne restavo lì, affacciato al balconcino, a sentirmi quel concerto quotidiano, tra un compito e l’altro, tra una tazza di tè e due biscottini al miele. E mentre ascoltavo, guardavo la chitarra Eko che mi avevano appena regalato i miei genitori e provavo ad immaginare gli accordi che avrei dovuto fare per suonarle anch’io quelle belle canzoni. Mi chiedevo se le dita delle mie mani si sarebbero intrecciate come al solito, cercando di prendere il maledetto Si bemolle con il barrè e quanti di quei pezzi, invece, sarei riuscito a fare con il comodo e riposante giro di Do.
Ma quello che mi piaceva di più erano i cori, quel bellissimo intrecciarsi di voci e vocine in falsetto che erano già state prima dei Beach Boys e di tanti altri gruppi più famosi, ma che adesso, in Italia, appartenevano solo all’Equipe.
Sì, l’Equipe 84, proprio loro. Ma perché questo nome così strano? “Mentre provavamo in una cantina di Modena, nel 1963, ci capitò tra le mani un disco folcloristico cantato da una certa Equipe Tahitienne – raccontarono anni dopo ad un giornalista – Il nome Equipe ci piaceva un sacco, ma da solo non suonava bene. A cosa accoppiarlo? Ci venne in mente il liquore, lo Stock 84, che allora andava per la maggiore. Decidemmo per quel numero, sperando forse che l’azienda ci mettesse sotto contratto per cantare in una delle pubblicità di Carosello”.
All’epoca l’Equipe era famosa in Italia come lo è oggi Vasco Rossi, forse di più. Le loro canzoni erano quasi tutte cover italiane di pezzi già famosi in Inghilterra e negli Stati Uniti. Ecco quindi, una dopo l’altra, Quel che ti ho dato (Tell me dei Rolling Stones), Sei felice (Tired of Waiting dei Kinks), La fine del libro (Time Is on my Side, Rolling Stones), Sei già di un altro (Don’t Worry Baby, Beach Boys).
Erano tutti modenesi e nella formazione c’erano il gigantesco bassista Victor Sogliani, il brufoloso Franco Ceccarelli, chitarra ritmica e futuro papà dell’attrice Sandra Ceccarelli e il piccolissimo Alfio Cantarella che, quando si sedeva dietro alla sua batteria, i piedi non gli toccavano terra. Il leader era invece l’altissimo e magrissimo Maurizio Vandelli, soprannominato “il principe” per il suo stile asciutto e un certo modo di vestire charmant, con sciarpette e foulard colorati.
I quattro iniziarono a vendere moltissimi dischi e parteciparono addirittura al Festival di Napoli del ’65, cantando in napoletano Notte senza fine che non era male per niente, con quel loro accento posillipo-bassopadano così particolare e irresistibile.
Da allora iniziarono a collaborare con altri autori famosi. Francesco Guccini, che suonava la chitarra con alcuni di loro in un vecchio gruppo che si chiamava Paolo & I Gatti, scrisse per loro L’antisociale e, soprattutto, la bellissima Auschwitz, anche se i loro più grandi successi furono Io ho in mente te, cover di You Were on My Mind scritta da Sylvia Fricker, Bang Bang”di Sonny & Cher e Resta, cover di Stay che anni dopo Jackson Browne eseguirà in una celebre versione.
Si accorse dell’Equipe anche il duo Mogol-Battisti che offrì loro 29 settembre e Nel cuore e nell’anima, entrambi grandi successi. Ma Battisti era molto legato a Vandelli poiché era stato proprio lui ad insistere con la casa editrice Ricordi, per far debuttare Battisti come cantante e incidere Per una lira, il suo primo 45 giri.
Per andare ai loro concerti si faceva la fila, eccome. Ne ricordo uno, nel 1966, al cinema Maestoso di via Appia Nuova. Loro arrivarono su una Rolls Royce tutta bianca, vestiti in modo improbabile, con piume di struzzo e cappotti variopinti, come se invece di essere dalle parti dell’Alberone, uno dei quartieri più popolari di Roma, si trovassero invece a Carnaby Street. Faceva parte della coreografia oppure si erano un po’ montati la testa?
Li ricordo anche in un concerto nell’autunno del 1969, alle piscine del Foro Italico. Non c’era molta gente, in confronto a ciò che avveniva invece soltanto tre anni prima, anche perché non era più un buon periodo per il gruppo. Il piccolo Alfio era stato appena beccato con un po’ di erba e la band era stata praticamente messa all’angolo da radio e televisione. Il periodo del beat italiano stava lentamente volgendo al termine, un po’ come tutte le belle storie. Nel loro ultimo long playing c’era una canzone molto bella e poco conosciuta che si chiamava Da domani. Mi feci coraggio e mi avvicinai al palco, durante una pausa. Avvicinai Vandelli e gli chiesi se potevano suonarla. Lui rispose che non si ricordava bene le parole perché non l’avevano ancora mai cantata in pubblico.
“Resta qui vicino a me, mentre la facciamo così se dimentico qualche parola tu me la suggerisci, okay?”, suggerì il principe, con un gran sorriso. Le cose andarono proprio così. Il problema fu che non solo le parole le dimenticò lui, ma che alcuni versi non tornarono in mente neanche al sottoscritto, così quello che ne uscì fuori fu qualcosa di piuttosto impreciso, anche se, come al loro solito, suonato alla grande.
E gli Sharks del 1964? Beh, come dire, erano dilettanti della musica, anche se molto bravi anche loro. Il gruppo si sciolse dopo un paio d’anni e ognuno dei quattro componenti si è poi fatto strada nella vita, ognuno in un settore specifico.
Ogni tanto passo ancora davanti a quel vecchio garage del parroco e mi fermo a guardare ma, per quanto tempo io resti lì, non c’è niente da fare perché, da dietro quella saracinesca, non esce più fuori neanche uno straccio di nota musicale. Anche la vecchia Seicento bianca del parroco non c’è più. Proprio come il titolo di quella vecchia canzone dell’Equipe: La fine del libro.