Con il suo cinema Vincenzo Marra ha sempre fatto del sociale una battaglia personale. Sin dagli esordi con il bellissimo e premiatissimo Tornando a casa Marra ha guardato alle ingiustizie e alle storture del mondo e di un sistema che intrappolano e travolgono uomini e donne, in Italia come altrove. E anche nel suo ultimo film, La prima luce (First Light), presentato in questi giorni a Open Roads – New Italian Cinema, sono l’Italia (Bari) e l’altrove (il Cile) a fare da sfondo e da co-protagonista alle vicende drammatiche e personalissime di un padre e del suo bambino, di un uomo e una donna che non si amano più, che vogliono cose diverse, di scelte divergenti e di un sistema giudiziario (e non solo) che determina le loro vite.
La prima luce è un film molto personale, intimo pur raccontando una vicenda drammaticamente universale, da dove nasce l’idea del film?
“Ho voluto raccontare temi universali che appartengono all’oggi, che coinvolgono i nostri figli, che sono oggi i figli della globalizzazione, le nuove famiglie, che raccontano i confini, attraverso una vicenda familiare, di coppia, di paternità che può succedere a tutti e succede, in modo da far immedesimare chiunque nella storia. Mi interessava partire dalle dinamiche di coppia, da quell’intimità che c’è tra due persone e ad un certo punto si crea una frattura, per cui il rapporto si rompe. Ecco, la prima parte del film è questa, che è poi la più intima e personale…”
Il film è ambientato nella prima parte a Bari e nella seconda parte in Cile, come mai questi due luoghi in particolare?
“Sin dall’inizio, dalla prima versione della sceneggiatura, per me era importante raccontare questa storia utilizzando elementi naturali, che dovevano essere parte della storia e sottolineare alcuni stati d’animo… prima di tutto volevo accentuare il senso di solitudine, cercavo una città di provincia con il mare, non un paesino ma una città, e Bari è perfetta. Il mare mi aiutava a sottolineare il senso di solitudine di Martina [interpretata da Daniela Ramirez, co-protagonista del film, nda]. Dall’altra parte invece, in Cile, ci sono le Ande, nel film le vediamo, luogo invalicabile nell’ipotetica fuga, o ritorno, del protagonista”.
Racconti un Cile forse inaspettato, moderno, in ascesa, una metropoli in cui la protagonista vuole tornare, insieme al figlio, dopo anni di vita in Italia.
“Si, per me il Cile era un’occasione importante per raccontare un altro tema del film, e cioè una storia di confine diversa, che non sia di quelle che sentiamo tutti i giorni, volevo trovare il modo di rielaborare le tante storie di confini che ci vengono raccontate oggi… Volevo raccontare un paese emergente, vitale, una donna immigrata che fosse lontana dal cliché della donna povera, proveniente da un paese del terzo mondo, che si porta via il bambino… Martina torna in Cile perché lì la aspetta un futuro migliore per sé e per suo figlio, non in Italia, ma in Cile”.
Parlando del cast, i tre protagonisti sono eccellenti: un Riccardo Scamarcio inedito, brava l’emergente Daniela Ramirez e il bambino, Gianni Pezzolla è una meravigliosa sorpresa, e tutti e tre funzionano benissimo insieme.
“Scamarcio l’ho scelto prima di tutto in funzione della storia, per rendere ancora più credibile la vicenda, proponendo un volto molto noto che facesse propria la storia, come ha fatto lui, e facesse pensare quindi che una vicenda come questa può capitare anche a uno come lui. Poi la sua voglia di fare questo film ha fatto la differenza. Ci tenevo molto all’elemento di verità, ho portato Scamarcio a Bari, ecco allora il dialetto. Abbiamo fatto un mese di preparazione insieme a Bari, io, lui, Daniela e il piccolino, per creare una famiglia, perché la famiglia e i rapporti fra loro fossero credibili”.
A proposito del bambino, come lo hai scelto?
“Ero molto in crisi, all’inizio avevo pensato di cercare nella comunità sudamericana in Italia, così parlano sia italiano che spagnolo e poteva essere più credibile, alla fine invece ho deciso di cercarlo a Bari, era normale che pur con una madre sudamericana che gli parla in spagnolo, il bambino era cresciuto a Bari, parlasse con accento barese. Quindi ho fatto un lungo casting nelle scuole, ho visto tantissimi bambini e ho trovato lui, che è un mostro di bravura! Adesso infatti sta facendo altri film…”
Un forte naturalismo, una verità che traspare nei luoghi, nelle relazioni tra i personaggi, nella lingua e nel dialetto, sono caratteristiche di tutto il cinema di Vincenzo Marra. La prima luce è un film impegnativo, da diversi punti di vista, ed è stato realizzato con un piccolo budget, quali sono state le difficoltà maggiori?
“È un film molto povero, quindi è stato molto difficile produttivamente, ma non solo produttivamente, già il fatto di dover creare una famiglia che avesse verità, come dicevo: un attore italiano famoso che non parla spagnolo, un bambino di Fasano e un’attrice cilena emergente. Forse è stato questo l’aspetto più difficile. E poi il budget era veramente molto basso per quello che dovevamo fare e le condizioni veramente difficili, avevamo poco tempo, a Bari giravamo con 40 gradi, poi abbiamo preso un aereo e siamo volati nell’inverno cileno, con una nuova troupe, poco tempo per le riprese. È stato veramente molto difficile… Volevo fare questo film e in questi casi si accetta tutto, ma qui mi sono reso conto che dovrebbe esserci un limite, a certe condizioni bisognerebbe anche dire no. Certo è che il cinema italiano ha sempre più spesso limiti di budget, di produzione e di distribuzione che rischiano di minare seriamente non solo la riuscita ma la stessa ragion d’essere di un film. Il nostro cinema d’autore qui a New York è guardato con ammirazione, a volte forse con qualche aspettativa di troppo, altre con sincera curiosità, ma certo le condizioni produttive e anche distributive degli art movies tra l’Italia e l’America (pur con le dovute similitudini) sono distanti anni luce. Da noi cinema d’autore è pericolosamente diventato sinonimo di film povero, qui è un film meno ricco degli altri ma più che altro è rivolto a uno specifico tipo di pubblico. Ma è prima di tutto una questione culturale, non finanziaria. E su questo bisognerebbe fare più di un un pensiero”.
Per concludere, Vincenzo Marra farebbe un film a New York?
“Di New York mi piacerebbe raccontare la periferia, le ombre, in un modo che non ho ancora visto fare al cinema, li racconterei nel modo in cui posso aver raccontato io la mia città, Napoli. Nel cinema qui c’è sempre troppa drammaturgia, qualcosa che è sempre troppo confezionato. Nei film su New York non vedo il tempo del silenzio di questa città… vedo il rumore, il dramma, le contraddizioni e vedo l’arte magistrale della drammaturgia, ma mi manca il silenzio della gente di questa città”.
Ed è vero, i silenzi ci sono anche a New York, e i silenzi dei luoghi e delle persone raccontano molto, a volte raccontano tutto.
Guarda il trailer di La prima luce:
La prima luce sarà al Walter Reade Thetre del Lincoln Center mercoledì 8 giugno alle 8.30 pm.