Dopo aver attraversato in lungo e in largo gli Stati Uniti, dalle nevi dell’Iowa e del New Hampshire alle scintillanti luci di New York, l’entusiasmante duello tra Bernie Sanders e Hillary Clinton si è finalmente concluso sotto il sole della California.
L’esito dell’ultimo super-martedì di queste incandescenti primarie democratiche non lascia adito a dubbi: Hillary Clinton è riuscita a prevalere nel Golden State con il 56% delle preferenze, trionfando anche in New Jersey (con ben il 63,3%), in New Mexico e nel South Dakota, lasciando al rivale solo il North Dakota e il Montana. In altri termini, la ex First lady raggiungerà con facilità la maggioranza dei voti necessari a mettere sotto chiave la nomination, che riceverà formalmente alla convention democratica prevista per fine luglio. Nonostante i media l’abbiano incautamente incoronata già ieri mettendo nel conto anche i superdelegati, che voteranno solo alla convention, il vantaggio a favore di Hillary dopo le ultime vittorie renderà quasi impossibile gli sforzi di ingraziarseli da parte del senatore del Vermont.
Martedì, la Clinton non ha lasciato che le briciole a Bernie Sanders, chiudendo in bellezza una campagna piena di incognite e inciampi, in cui ha mostrato tutti i suoi punti deboli, ma ha anche messo in luce l’estrema determinazione e la perfetta organizzazione della propria macchina elettorale.
Se la vittoria di Hillary in New Jersey appariva da tempo scontata, l’elezione californiana è stata un’estenuante lotta all’ultimo voto. La ragione è semplice: il Golden State è la grande roccaforte progressista degli Stati Uniti e il suo elettorato variegato rappresenta un termometro fondamentale per verificare la forza di un candidato democratico. Un sorpasso di Sanders in California, pur insufficiente a livello matematico, avrebbe costituito uno schiaffo simbolico durissimo per la Clinton, in grado di indebolirne l’investitura proprio al termine della corsa. Con un’affermazione così netta, Hillary ha evitato le conseguenze imbarazzanti dell’ultimo colpo di coda del senatore del Vermont.
Ora che la battaglia negli stati è terminata (tranne che nel piccolo District of Columbia, dove si chiuderanno simbolicamente i giochi il 14 giugno) per entrambi i contendenti è giunto il momento di prepararsi a una difficile partita a scacchi, in cui diplomazia e doti strategiche risulteranno fondamentali. L’obiettivo dei democratici è quello di arrivare compatti alle elezioni presidenziali dove li attende un nemico “non convenzionale” come Donald Trump, la cui arma più pericolosa è proprio l’inquietante imprevedibilità.
Parlando a una folla festante riunita a Brooklyn subito dopo il successo, una smagliante Hillary ha invocato esplicitamente l’unità, congratulandosi con Sanders e tendendo una mano ai supporter del suo avversario. “Il dibattito acceso” – ha detto la Clinton – “è stato un bene per il partito democratico e per l’America”.
Richiamando poi la conferenza di Seneca Falls del 1848, in cui per la prima volta le donne lottarono per i propri diritti, Hillary ha voluto sottolineare l’importanza storica del momento. In più di 200 anni di vita della democrazia a stelle e strisce, non era mai successo che una donna arrivasse così vicina alla Casa Bianca. E lo splendido discorso della Clinton, per intensità e potenza, è destinato a rimanere negli annali.
Ma non c’è solo questo: in fondo per lei, dopo la sconfitta subita otto anni fa a opera di Barack Obama, l’affermazione di martedì ha anche il sapore della rivincita.
Il Presidente uscente ha telefonato sia alla Clinton sia a Sanders e fonti vicine alla Casa Bianca affermano che è pronto a dare nei prossimi giorni il suo endorsement ufficiale a Hillary. Giovedì incontrerà invece Bernie, che aveva già sentito telefonicamente nel week end, in una chiamata il cui contenuto è rimasto riservato. Ora che i rapporti di forza sembrano definitivamente chiariti il Presidente, che voterà a Philadelphia in qualità di superdelegato, sembra essersi inserito nel dibattito di partito sondando da vicino il clima tra i due contendenti, prima di una convention che si preannuncia delicatissima.
Da quando è emerso che Donald Trump avrebbe prevalso in campo repubblicano, Obama non ha risparmiato critiche al magnate newyorkese, dicendosi sicuro di una vittoria democratica alle elezioni di novembre. Un politico accorto come lui sa però bene che se dovesse scoppiare una faida interna al partito le conseguenze potrebbero essere disastrose.
Dal canto suo, dopo aver reagito con stizza alla prematura investitura della sua rivale alla vigilia delle elezioni californiane, nel discorso tenuto a Santa Monica Bernie non si è dato per vinto. Anzi, ponendo l’accento sui punti programmatici che nel corso di questa campagna elettorale hanno guidato la propria candidatura, si è detto deciso a continuare la lotta fino alla convention. “La nostra visione sarà il futuro dell’America” ha detto, accennando inoltre alla conversazione avuta con il Presidente e ringraziando i tanti sostenitori (soprattutto i giovani) che lo hanno appoggiato in questa esaltante corsa. Naturalmente, Sanders sa che le chance di vittoria sono quasi nulle, dato il vantaggio matematico dell’avversaria, mentre la sconfitta in California lo priva un forte argomento per attirare a sé i superdelegati.
Tuttavia, la cocciutaggine del vecchio Bernie non è illogica. Oltre a permettergli di ribadire le proprie proposte politiche dando diritto di cittadinanza al movimento da lui rappresentato, rimanere formalmente in gioco potrebbe persino essere un’ancora di salvezza per il partito nel caso (remoto ma non impossibile) di un rinvio a giudizio di Hillary da parte dell’FBI. In quella circostanza, i superdelegati sarebbero costretti a negarle il voto e la presenza di Bernie eviterebbe eventuali maldestri tentativi dell’establishment di “paracadutare” qualche altro candidato dall’alto.
Nondimeno, si intravedono spiragli di dialogo nello schieramento progressista. A Santa Monica, affermando che non permetterà mai a Trump di diventare presidente, Bernie lascia intendere di non voler compromettere la tenuta del partito nella prossima sfida di novembre.
Questa la situazione sul fronte dei democratici, mentre il partito repubblicano cerca di contenere le intemperanze del suo nuovo padrone Donald Trump, il quale ultimamente ha incassato l’atteso endorsement dello speaker della Camera Paul Ryan, uno degli ultimi pezzi grossi ad appoggiare apertamente il milionario. Neanche il tempo di fare il grande passo che Ryan ha dovuto subito prendere le distanze dai commenti al vetriolo di Trump contro il giudice di origini messicane Gonzalo Curiel, chiamato a esprimersi sullo scandalo della Trump University e bersagliato ormai da giorni dal tycoon.
Al netto delle solite polemiche scatenate dal magnate, martedì The Donald si è preso altri cinque stati (un’elezione puramente simbolica essendo ormai di fatto il nominato) concedendo poi un discorso in cui affiorano alcuni aspetti essenziali della sua futura strategia in vista dello scontro contro Hillary Clinton. Nel corso di un intervento dai toni insolitamente conciliatori, Trump ha dichiarato di comprendere bene cosa significhi avere la responsabilità di guidare il partito repubblicano, facendo un appello ai democratici e ai sostenitori di Sanders e presentandosi come “l’uomo del popolo” contro i grandi interessi economici che pretendono di governare il paese. Da qui a novembre il tycoon utilizzerà spesso questa retorica dal sapore sanderiano per catturare indipendenti ed elettori della classe media, delusi dalla situazione economica, soprattutto negli stati del Nord–Est (tradizionalmente democratici). Una delle sue tattiche sarà infatti quella di attaccare Hillary “da sinistra” puntando agli stati in bilico (come per esempio l’Ohio) e alle zone industriali del paese che più hanno sofferto le delocalizzazioni, addossandone la colpa proprio alle politiche neoliberiste appoggiate dalla Clinton.
Ma la risposta di Hillary non si farà attendere: in ogni caso, ci aspetta una lunga estate infuocata.