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L’Antimafia con le corna a posto e noi col dolore fitto

Dopo il caso Pino Maniaci, eccovi alcune riflessione da chi ha scritto il libro "Contro l'Antimafia"

Giacomo Di GirolamobyGiacomo Di Girolamo
antimafia

Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato (Foto Ansa)

Time: 7 mins read

Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

Regnano la confusione e la paura, dopo che il giornalista antimafia più famoso al mondo, Pino Maniaci,  è stato raggiunto da un divieto di dimora in Sicilia Occidentale, perché è indagato per estorsione. I particolari li conosciamo tutti. E ci sono queste intercettazioni terribili, terribili.

contro l'antimafia
La copertina del libro di Giacomo Di Girolamo “Contro l’Antimafia” (Il Saggiatore, 2016)

In tanti mi chiamano. Mi chiedono, si sfogano. Perché io ho scritto questo libro qua, Contro l’antimafia, un libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go.  E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto. O c’è chi dice: ecco, ora il distruttore dell’antimafia potrà ancora delirare un altro po’.

Deludo entrambe le categorie. Io non avevo previsto un bel nulla. E in questo momento provo solo dolore e paura.

Per essere più precisi, perché di precisione abbiamo bisogno, di esattezza, di chiamare le cose per nome, oggi più che mai, è un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

E’ il bruciore lo sapete cos’è? La coscienza che è tutto finito.
L’antimafia è finita, lo dico dal punto di vista narrativo, di sequenza logica dei fatti. Mai avrei pensato, mai, che un giorno, il mio essere “antimafioso” sarebbe dipeso da alcune domande: ma 466 euro sono un’estorsione? E qual è il valore minimo di un’estorsione? Perché all’improvviso i carabinieri fanno video che neanche nelle serie su Sky hanno questo montaggio qui? E Antonio Ingroia iper garantista che parla come gli avvocati che lui fiero combatteva poco tempo fa, non è anche questa la fine dell’antimafia? E che vicenda sporca è mai questa? E’ come quella di Saguto, come quella di Montante. Mille ragioni, mille verità, un grande disorientamento.

Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

***

Pino Maniaci lo conosco poco e non leghiamo tanto, come non riesco mai ad entrare in sintonia con tutti quei personaggi un po’ guasconi, che indossano una medaglietta e ottengono il massimo risultato di popolarità con il minimo sforzo di applicazione, grazie ai  super poteri dell’antimafia.

Ha avuto grandi meriti, Maniaci, a Partinico e dintorni. Mi ricordo le battaglie sulla distilleria Bertolino, ad esempio, certi suoi servizi arrembanti.

Non ho mai sopportato un suo certo modo di fare giornalismo.  Una volta mi trovai davvero in difficoltà con lui ad Agrigento. Si parlava di mafia, ovviamente, e lui esordì con una serie di battute, di dubbio gusto, per poi fare il pezzo forte del suo repertorio, parte finale di un monologo tutto intriso di un dialetto fastidioso: l’appello a Matteo Messina Denaro affinché si arrendesse, fatto con queste parole: “Matteo soldino figlio di buttana arrenditi”.

Ecco, non credo che sia giornalismo, questo, è un’altra cosa. Ho tentato di spiegarlo a Pino, ma proprio non ci siam intesi.  Negli anni ‘70 Peppino Impastato aveva un coraggio da leoni ad aprire il microfono di Radio Aut e dire: “La mafia è una montagna di merda”. Perché la mafia non esisteva (non c’era neanche il reato nel nostro codice penale), e perché i mafiosi ce li aveva a casa, accanto, dappertutto. Oggi se io alla radio dicessi “Messina Denaro pezzo di merda” non sarei un giornalista, ma uno – forse un ciarlatano  –  che cerca il gioco facile della popolarità gridata, anziché la sfida della complessità: raccontare storie vere, comporre e decomporre i fatti, non fermarsi all’evidenza delle cose, agli slogan.

Ovviamente questo mio giudizio su Maniaci, come altri su altri campioni dell’antimafia, poteva essere espresso solo a bassa voce e con circospezione, dato che chiunque criticasse il simpatico Pino veniva tacciato di “mafieria”.

Io ho scritto Contro l’antimafia anche per questo, per liberarmi di tutti questi silenzi. Mi dava fastidio il tono di Maniaci (che ha fatto comunque anche un sacco di inchieste importanti, ripeto), come avesse avuto un titolo ad honorem di giornalista nonostante la fedina penale non proprio pulita pulita (un reato, se lo commette un campione dell’antimafia è un peccato di gioventù, un segno di necessità…), come la sua redazione fosse basata sul lavoro di volontari (se lavori per l’antimafia non in regola mica è lavoro nero, è un grande volontariato per la salvezza delle anime belle della Sicilia) come gli avessero regalato videocamere e mezzi che a noi, giornalisti con le pezze al culo senza doppio lavoro e con la nostra libertà come unico prezioso patrimonio, non erano concessi.

A Partinico erano e sono in tanti a pensare cose non proprio edificanti, sul suo conto. In molti sapevano, anche. Dei cani, dell’amante. Me lo avevano anche detto, sempre a bassa voce, sempre con la paura di farsi sentire. Perché se ti mettevi contro Telejato cominciava in televisione lo sputtanamento, dicevano. Chi ci è passato lo sa. C’è questo clima di terrore che certi campioni dell’antimafia riescono a creare, che ho visto a Partinico come altrove. Non puoi criticarli, mettere in dubbio il loro operato, cercare una contraddizione. Non puoi, proprio non puoi.

***

Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? E’ la domanda che mi fanno tutti, in questi giorni. Soprattutto  giovani. E io risposte non ne ho. Non lo so.

Perché è una domanda che ognuno si deve fare e risolvere da sè. Con umiltà, attenzione, concentrazione e responsabilità.

Non è il caso di parlare una questione morale, la questione morale ognuno se la sbriga a modo suo,  guardandosi allo specchio.

Ah, e non c’è una mafia dell’antimafia, come sento dire in questi giorni:  ci sono truffatori, bellimbusti, bulletti e criminali, vittime e impostori.

Sono dappertutto, nel giornalismo come nella magistratura. Nessuno è esente. Fa danni Maniaci, come il magistrato che si occupa di mafia e si sente una specie di Robin Hood, il parente della vittima che si improvvisa sociologo e riversa sugli studenti le sue bislacche teorie, l’avvocato che campa con le costituzioni di parte civile un tanto al chilo, il politico che cerca mafia dappertutto per giustificare la sua elezione avvenuta, ovviamente, “in nome dell’antimafia”.

Facciamo danni tutti noi, ridotti al rango di pubblico. Abbiamo rinunciato al gusto, si, al gusto, di essere cittadini. Cerchiamo eroi da venerare, santi da portare in processione, miti da inondare su Facebook di pollici all’insù, vorremmo avere un cazzo di eroe antimafia dei nostri tempi al giorno. Abbiamo rinunciato a comprendere le cose, ad interrogarci – ogni dubbio viene visto come sfrontato –  abbiamo ridotto la parola “intellettuale” quasi a offesa.

E così, per citare il nostro Pino, anche noi, ci siamo messi le corna a posto.

No, soluzioni non ne ho. Se non quella della responsabilità. E la responsabilità, per me,  è raccontare le cose. Racconto le cose, e magari le indico, così uno le sa, e non può dire un giorno: chi lo avrebbe mai detto…

Se tutti ricominciassimo da questo, dal segnalare, con serenità, piccole e grandi storture in quella che chiamiamo “antimafia”, porre dubbi, eviteremmo scandali futuri.

Faccio due esempi, mica mi nascondo. Sono due casi che riporto in Contro  l’antimafia. Ci sono sviluppi.

Il primo caso riguarda l’associazione antiracket di Marsala, che porta il nome di Paolo Borsellino, e ha come dominus l’avvocato Giuseppe Gandolfo, noto in città anche per le tante candidature tentate in diverse competizioni elettorali e per aver fondato il locale presidio di Libera, per poi passare a farsi una “Libera” tutta sua, questa bislacca associazione, appunto.  Ho raccontato in “Contro l’antimafia” la cosa strana, l’anomalia, dell’associazione antiracket di Marsala la cui attività e vicina allo zero, che da un giorno all’altro cambia statuto (e sceglie il nome aulico di “Paolo Borsellino”), allarga a dismisura il suo oggetto sociale, apre sedi fittizie in varie parti d’Italia e comincia a costituirsi parte civile nei processi che si tengono qua e là per la penisola. Secondo voi è normale che l’associazione antiracket di Marsala, che nella sua attività non ha mai assistito uno (dico uno!) tra imprenditori  e commercianti nella denuncia del pizzo, che ha prodotto nell’ultimo anno solo uno (dico uno!) manifesto in unica copia (dico una!) affissa nel panettiere di fronte ad una scuola, che ha  una base di tesserati composti da amici, collaboratori e loro parenti e affini dell’avvocato Gandolfo, dico, secondo voi è normale che questa associazione si costituisca parte civile nel processo contro la ‘ndrangheta a Bologna?

Qualcosa di strano è accaduto, in questi anni, se un’associazione siciliana, molto di facciata, abbia questa attività processuale tale da sentirsi parte offesa per l’attività di una cosca calabrese in Emilia. Questo racconto nel libro. La novità, adesso, è che il Gratta & Vinci ha funzionato. Nel processo, che si è chiuso qualche giorno fa, sono stati riconosciuti all’associazione antimafia di Marsala ben 20.000 euro di risarcimento danni e 7000 euro di spese legali.

Che un giudice a Bologna decida che una cosca calabrese infiltrandosi in Emilia abbia danneggiato per 20.000 euro un’associazione antiracket di Marsala è una cosa sulla quale siamo chiamati ad interrogarci. Ancora. cosa farà l’associazione antiracket con quei soldi? Cosa ha fatto con gli altri soldi ottenuti negli altri processi?

Domande da fare ora, per evitare scandali futuri, domani.

vigneto antimafia
Il vigneto “antimafia” abbandonato

Un altro caso riguarda un terreno confiscato a Michele Mazzara, imprenditore di Paceco, “U Berlusconi di Dattilo”, lo chiamano, al quale sono stati confiscati beni per 26 milioni di euro, perché è ritenuto molto vicino alla famiglia mafiosa di Trapani. Il terreno in questione è un vigneto in Contrada Gencheria,  gestito dalla cooperativa “Lavoro e non solo”, che fa parte del circuito di Libera ed è di Corleone. Quel vigneto è completamente abbandonato. L’uva se la mangiano i cani.  In “Contro l’antimafia” mi chiedo: ha senso dare un terreno ad una cooperativa che non ha interesse a coltivarlo e che magari ha interesse solo a registrare gli ettari per ricevere i contributi dovuti? Nessuno mi ha mai risposto.  Il terreno è lì, sempre abbandonato, come tantissimi altri.

Ecco due piccole questioni. Ne potrai citare decine di altre, ma è difficile. Troppo doloroso.

Sempre quel bruciore fitto, fino al centro dello sterno.

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Giacomo Di Girolamo

Giacomo Di Girolamo

Sono nato nel '77, vivo in Sicilia occidentale, mi occupo di mafia, corruzione, tutela del territorio. Sono direttore della radio della mia città, Rmc 101, la più ascoltata in provincia di Trapani, e del portale Tp24.it. Conduco una rubrica, Dove sei, Matteo?, nella quale mi occupo di Matteo Messina Denaro, boss tra i più ricercati al mondo, su cui ho anche scritto il libro L'invisibile (2016). Nel 2012 ho pubblicato Cosa Grigia, libro-reportage sulla mafia che cambia. Nel 2014 ho scritto Dormono Sulla Collina. E poi "Contro l'antimafia" (2015), "La partita truccata" (2017). Il mio ultimo libro è stato pubblicato da Laterza e si chiama "Gomito di Sicilia".

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