Era il pomeriggio del 6 aprile del 1967 e io avevo ancora quindici anni. Ne avrei compiuti sedici soltanto tre mesi più tardi. Insieme al mio amico Paolo, oggi noto architetto, avevamo acquistato i biglietti attraverso un giornale musicale dell’epoca, Big. Il concerto si teneva al Palazzo dello Sport all’Eur, quello che stava vicino al Fungo e che mi sembrava una specie di tetta di donna schiacciata, con il capezzolo un po’ moscio.
“Scherzi?”, ribatteva sempre mio padre, “quella è una vera opera d’arte, disegnata dall’architetto Piacentini e realizzata dal famoso ingegner Nervi”.
“Se lo dici tu, papà”, rispondevo io, assai poco convinto e pensando invece “Ma chi cacchio è ‘sto Nervi?”.
Andammo verso l’opera d’arte con la metropolitana. Con noi c’erano anche due ragazze, Rita e Monica, entrambe molto carine, anzi, a dire la verità loro erano in effetti le due ragazze più carine dell’intero quartiere. Non sapevamo bene se fossero venute perché erano interessate a noi oppure perché avevamo loro offerto gratuitamente i biglietti per entrare. Qualcosa ci faceva propendere leggermente per la seconda ipotesi, anche se facevamo finta di pensare con tutti noi stessi alla prima possibilità. In fondo che male c’era a sognare un po’?
“Perché si chiamano Rolling Stones?”, domandò Rita.
“E io che ne so?”, risposi, facendo, come al solito, la figura dell’ignorante, mentre un ragazzino brufoloso lì vicino commentava: “Ma come non lo sapete? Hanno preso il nome da uno dei titoli di Muddy Waters!”.
“Ah, già”, bofonchiai, cercando di ricordare se questo Waters fosse un cantante oppure una famosa ditta di detersivi”.
Ci sentivamo bene, eravamo felici. Anche io e Paolo, nel nostro piccolo, avevamo appena fondato un gruppo rock che si chiamava The Mellows, con il nome preso in prestito da una famosa canzone del cantante scozzese Donovan, Mellow Yellow. In repertorio avevamo già inserito alcuni pezzi degli Stones tratti dal loro ultimo disco del 1966, Aftermath, a mio avviso il loro miglior LP di sempre. Le canzoni che provavamo a fare, cantando in inglese maccheronico assai e affrontando gli accordi non sempre nel modo giusto e coordinato, erano Lady Jane, Mother’s Little Helper e Under my Thumb. Facevamo le prove nel garage sotto casa e suonavamo fino a quando mio padre non tornava a casa e doveva rimettere dentro l’auto, una Giulia Alfa Romeo, se ricordo bene. Quando sentivamo il rombo del motore, allora smantellavamo tutto, chitarre, batteria e amplificatori, per ricominciare il giorno seguente allo stesso modo. Il sabato pomeriggio ci esibivamo invece alla Sever Beat Club, altrimenti detta fogna beat, un localaccio putrido e sotterraneo dalle parti del Pantheon, che raggiungevamo trasportando gli strumenti e gli amplificatori sull’autobus della linea 94. Ci davano cinquecento lire a testa, quando andava bene. E quando andava male, un panino, un sorriso e una Coca-Cola.
Nel gruppo degli Stones che salì sul palco quel lontano pomeriggio d’aprile, suonava ancora il biondissimo Brian Jones, grande musicista polistrumentista, capace di suonare proprio tutto, dalla chitarra al piano, dal dulcimer al sitar. Era destinato ad andarsene soltanto due anni dopo, nel 1969, trovato annegato in piscina, stremato da alcool, droghe e molta confusione mentale. Fu sostituito prima da Mick Taylor, poi da Ry Cooder e infine dall’attuale Ronnie Wood ma, in realtà, nessuno è mai riuscito a sostituirlo davvero, secondo me, perché lui era davvero un musicista eccezionale. Dentro la famosa tetta piatta c’era un riverbero assurdo, la musica si impastava tutta, le parole delle canzoni non si capivano proprio. Mi sa che i geni Piacentini e Nervi non l’avevano proprio costruita per quello, quanto invece per giocare a basket e pallavolo. Non che se ci fosse stata una migliore acustica, avremmo potuto capirle davvero quelle parole, visto il livello scarsissimo del nostro inglese dell’epoca di cui era in parte responsabile il nostro poco desiderio di studiare e anche lo stile casareccio del nostro insegnante di lingua, nato al Tufello.
“E mo’ passamo a studià i congiuntivi. All right?”.
Il concerto non durò più di quaranta minuti e suonarono poche canzoni, replicate poi nello spettacolo serale. Una di queste era il loro ultimo hit, Let’s Spend the Night Together, tratto dall’ultimissimo LP, Between the Buttons e destinato a diventare subito un successo interplanetario. Per quei tempi le parole della canzone risultavano piuttosto scandalose ai benpensanti, ma sul parterre del Palazzo dello Sport quel pomeriggio le ragazzine romane sembravano impazzite e ballavano scatenate, con quelle loro minigonne vertiginose che a un giovane sbarbatello come me facevano venire il sangue alla testa.
“Ti voglio!”, gridò ad un certo punto la mia amica Rita, seduta vicino a me e io ero già pronto a darle un bacio, con tutti i crismi e la passione. Ma mi si smorzò il sorriso sulle labbra quando mi accorsi che l’oggetto del suo desiderio non ero affatto io e neanche il mio amico Paolo, che sedeva lì vicino. No. L’oggetto del desiderio suo e praticamente di tutte le altre ragazze presenti quel giorno, era quel tipetto dinoccolato e magrissimo, con le labbra larghe e grandi e la lingua sempre di fuori a fare sboccate boccacce a tutti e a tutto. Si chiamava Mick Jagger, per chi non l’avesse ancora capito, e aveva ventitré anni. Non ci furono incidenti particolari durante il concerto, anche se un centinaio di ragazzi tentò di entrare nei camerini tra il primo e il secondo tempo per ottenere qualche autografo. Credo che in tutto saremmo stati cinque o seimila lì dentro quel giorno e, se penso alle folle oceaniche che si radunano adesso ai concerti, mi viene un po’ da ridere. Ma quelli erano i primi Stones, quelli veri, quelli destinati a restare per sempre la più grande band della storia del rock che, ancora oggi, esempio più unico che raro, continua a girare il mondo e a incidere dischi.