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April 30, 2016
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La lunga marcia del magistrato Piercamillo Davigo

Perché quando il nuovo presidente dell'associazione dei magistrati rilascia un'intervista, la politica deve tremare

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Piercamillo Davigo

Il magistrato Piercamillo Davigo (a destra) in una immagine recente col suo collega dei tempi del Pool Mani Pulite di Milano, Gherardo Colombo

Time: 10 mins read

La settimana scorsa, il Dott. Piercamillo Davigo, neo Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera. Non sono mancate le analisi “di giornata”, come le uova, suggerirebbe Sciascia.

Sarà invece bene prenderlo sul serio. Anche perché, tutto sommato, in Italia un processo penale non si nega a nessuno.

Qui, un tentativo di non sprofondare nell’effimero.

Cominciamo, allora, col dire che, pur se, parlando di giustizia penale, lo fa nello slang accattivante di un bar in happy hour, come si vedrà, ha presentato un disegno lucido, articolato e coerente. Rappresenta un’organizzazione, l’ANM, consapevole del proprio potere e ampiamente capace di usarne. Non ha voluto proporre un’idea nuova e, così, forzare i toni per imporla all’attenzione generale. Tutte le proposizioni lì esposte costituiscono un repertorio ormai consolidato da oltre vent’anni. Tutte, nessuna esclusa, risalgono agli anni 1993 e 1994, cioè alla svolta di Mani Pulite

Il 17 Ottobre del 1993, pour case ancora al Corriere, aveva detto: “In Tangentopoli ognuno è parte di un più complesso sistema”. La conseguenza: “Anzichè tenere dentro le persone finchè non è spirato il termine massimo di custodia, quelli che sono arrestati tornano liberi dopo aver confessato”. E spiegava: “Se qualcuno collabora con noi, diventa inaffidabile per gli altri, non è più in condizione di commettere questo tipo di reati. Così egli può e deve essere rilasciato. Proprio come accade con i pentiti di Mafia”.

Dunque, quando si tratta di “contesti chiusi”, ci sarebbero solo colpevoli non ancora scoperti: non può esistere presunzione d’innocenza. Come si vede, la stessa tesi ripetuta oggi, compreso lo specifico rilevo attribuito ai “contesti chiusi”, che giustificherebbero la presunzione di colpevolezza.

Ma il Dott. Davigo non ha voluto proporre nemmeno un’idea solo sua. L’estensione delle leggi sui c.d. “pentiti di Mafia” ai delitti contro la Pubblica Amministrazione (corruzione, ora anche traffico di influenze ecc.), nemmeno un anno dopo, il 14 Settembre 1994, fu ripresa da Antonio Di Pietro, allorchè, con analoga pacatezza, la espose ad un “incontro di studio” promosso dall’Università Statale di Milano.

Il punto, pertanto, non è il Presidente dell’ANM. Ma l’Ordine Giudiziario tutto. Anche perché egli è stato eletto da oltre mille altri magistrati. E poi, se è vero che ha fondato una corrente nuova, “Autonomia e Indipendenza”, essa agisce pur sempre entro l’Associazione, non fuori. Può sembrare un’ovvietà, ma non lo è. Il 10% circa dei magistrati italiani non sono iscritti all’ANM: questo è un reale discrimine. Le “diversità” delle correnti sono solo variazioni su un unico tema. 

Vediamo prima le “variazioni”, e poi il “tema”.

La parola “corrente” evoca, assai opportunamente, il modello organizzativo democristiano, colto nella sua fase storica deteriore. Ci si divide per spartire. E, poichè “spartire implica “coprire”, non stupisce che essa parola, “corrente”, susciti falsi pudori. Per es. il dott. Piergiorgio Morosini, di MD, ha affermato: “Intendiamoci anzitutto sui termini: io parlerei di gruppi associati, non di correnti”. E invece sono proprio quello: correnti. Il 20 Gennaio 2015, rispondendo al Fatto Quotidiano, che gli chiedeva: “Fonda una nuova corrente?”, il dott. Davigo rispondeva, asciutto: “Sì, con tutti quelli che insieme a me sono usciti da MI” (Magistratura Indipendente, un’altra corrente n.d.r). Dunque, casomai qualcuno volesse ancora dubitarne, per bocca del futuro Presidente dell’ANM, veniva confermato che, anche negli anni presenti, le “correnti” in magistratura ci sono.

Ed in questo contesto, quello delle correnti, vanno pure inquadrate, e depotenziate, le asserite “distanze” che il Vice-Presidente del CSM, Giovanni Legnini, e qualche altro magistrato (un ex Presidente ANM, Luca Palamara), si vuole abbiano preso. Stanno dialogando tra loro: nessun dissenso reale, su scopi e mezzi reali per conseguirli.

Ma se le correnti costituiscono una variazione sul tema, qual’è il tema? E’ la “supplenza” della magistratura, rispetto agli altri Poteri dello Stato. Anche la supplenza è un’idea antica. Anzi, è il fondamento del progetto, lucido e coerente, che il Dott. Davigo ha consegnato, per tutti, e non a titolo personale, a quell’intervista-manifesto.

Infatti, già nel 1983, il Dott. Gherardo Colombo, che sarebbe diventato un altro famoso membro del c.d. Pool Mani Pulite, fissò i termini del progetto, in un saggio breve. Rilevava che a causa della “…mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica…l’ordine giudiziario svolge attualmente, di fatto, l’unica attività di controllo politico stabile, continuativa ed incisiva nel nostro paese…una serie di motivi contingenti rende del tutto impraticabile…una prospettiva immediata di ‘ritorno alla terzietà’…”; sebbene “…chiunque converrebbe sull’abnormità [del fatto] che una funzione delicata e complessa, e che involge necessariamente responsabilità politiche, sia svolta istituzionalmente da dipendenti dello Stato nominati per concorso…”; in prospettiva però, per rimediare all’abnormità, pensava ad una “…redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri, nella quale l’ordine giudiziario sia chiamato a svolgere permanentemente una funzione nuova…”. Fuori l’Abnormità, dentro l’Enormità.

Era già tutto lì. Controllo politico stabile ed incisivo. Abnormità di una funzione, di fatto politica, svolta da “dipendenti dello Stato nominati per concorso”. Redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri. Chiamati a svolgere una funzione permanentemente nuova. Motivi contingenti. La supplenza fu solo presentata come transitoria, ma era stata progettata come stabile e durevole. Tutto chiaro, lucido. E consapevole.

Ora, qualsiasi mutamento della struttura dello Stato, specie se non dichiarato da un balcone di fronte a folle vocianti, ma insinuato fra le remote pagine di un saggio giuridico, ha necessità di una Storia Edificante che ne giustifichi gli effetti. Altrimenti, per il naturale istinto di conservazione insito nella specie, i mutamenti, una volta divenuti pratica diffusa e visibile, rischiano il rigetto. La Storia Edificante è “L’Emergenza”. Si badi: non il problema, non la questione, non la difficoltà. Ma “L’Emergenza”.

Rispetto alle altre formule che esprimono una condizione complessa e, perciò, capace di anomalie e guasti (problema, questione), l’Emergenza presenta alcuni preziosissimi caratteri: sospende l’analisi, e invece il “problema” la richiede; sopprime la discussione, che invece la “questione” introduce; legittima, infine, la dicotomia amico/nemico, e invece sia il “problema” che la “questione” implicano una cooperazione in uno spazio comune.

Vale a dire: l’Emergenza introduce una cornice eminentemente dittatoriale. Il Dittatore non è un Tiranno, nè un Despota, nè un Re. Dictator era un Magistrato (nel senso di Istituzione) dell’antica Roma repubblicana che, per un anno, in ragione di un pericolo posto come imminente e temporaneo, sospendeva le regole ordinarie della vita pubblica: e assommava su di sè ogni potere. Il paradigma Colombo.

L’Emergenza dei giorni nostri è la Corruzione. Ma per intenderne i termini, può essere opportuna una minima “Genealogia dell’Emergenza”. Infatti, l’Emergenza-Corruzione costituisce solo un’ulteriore stadiazione di un disegno unitario. Non è un’isolata novità.

Al tempo in cui fu scritto il saggio di Colombo, l’Emergenza era la “mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica”; una condizione di asserito squilibrio che, amputando la dinamica democratica dell’alternanza, avrebbe fomentato inerzie e sclerosi nella vita politica. La medicina: “il controllo di legalità penale”, cioè, le manette.

La relazione Emergenza/Rimedio si è andata evolvendo attraverso un movimento omogeneo e crescente. Ogni passaggio, un nuovo tassello. Alla fine del 1995, su Micromega, questa relazione è ancora esplicitamente richiamata dal Dott. Francesco Saverio Borrelli, il Capo del Pool Mani Pulite: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”. Si può notare che la “Redistribuzione strutturale delle competenze e dei poteri”, già propugnata da Colombo, si è qui ormai esplicitata nel favore verso “restrizioni di diritti individuali”. E’ appena il caso di osservare che, se queste restrizioni alle libertà della persona fossero quelle ordinarie, non sarebbe stata necessaria una simile precisazione.

All’inizio del 2003, i magistrati Ingroia e Scarpinato, di nuovo su Micromega, offrono un altro aggiornamento dell’Emergenza, e scrivono: “La dimensione politica della mafia non è un dato eventuale e aggiuntivo del fenomeno, ma genetico e strutturale…ma… se è la politica il nerbo della potenza mafiosa, come può la stessa politica abbattere la potenza mafiosa?”. C’è un errore, proseguono: si tratterebbe delle “tesi ricorrenti” secondo cui “la democrazia consiste nella dittatura della maggioranza aritmetica..”. Per “…impedire il suicidio della democrazia…” bisogna ricorrere ad Autorità che “…sospendono o relativizzano il dogma del consenso…Bisogna dunque affidare a un’istanza politica superiore il compito di ‘sospendere’ autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica, al fine di salvare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza”. Pertanto, per impedire il suicidio della democrazia, ne veniva formalmente proposto l’omicidio.

Dalla Politica carente di Colombo (manca un’Opposizione politica vera), siamo passati alla Politica gravemente criminale, alla Politica che equivale alla mafia. Senza ulteriori limitazioni. Altrimenti, anche qui, sarebbero bastate le regole già vigenti.

E se, sia in Colombo che in Borrelli, l’Emergenza era ancora presentata sotto il segno classico della temporaneità, a quest’altezza della “supplenza” si può andare oltre. Si tratta, senza meno, di “sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica, al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Non sfugga la clausola operativa: se necessario, anche “contro la stessa volontà della maggioranza”. Per stabilizzare l’Emergenza, occorre stabilizzare un Nemico. La nuova funzione, permanentemente svolta, si consolida.

L’attenuarsi della stabilità dell’Emergenza, implicherebbe infatti il rischio dello scolorire del Nemico. L’ultima veste assunta dall’Emergenza, quella dell’Antimafia, a quel punto, mostrava il fiato corto. Nei quattro anni dal 1989 al 1992, in Sicilia c’erano stati una media di 410 omicidi circa per anno, 8.15 per 100.000 abitanti. Poi circa 300, nel 1993 e ancora nel 1994. Ma, sempre calando, erano già 140 nel 1998. Nel 2003, anno dell’articolo di Ingroia e Scarpinato, a dieci anni dalle ultime stragi, saranno poco più di 70, 1.23 per 100.000 abitanti, 1.24 la media nazionale.

Torniamo all’oggi. L’Emergenza, come fattore giustificativo della stabile “supplenza”, deve avere una veste replicabile (i crimini in costante ed ineluttabile crescita), di suggestiva familiarità (il mafioso e il politico vivono accanto a noi), ma, al contempo, anche di indistinguibile identità (“i politici” continuano a rubare, afferma Davigo). Tutti caratteri comuni all’Emergenza Tangentopoli e a quella Antimafia.

Allora, per fugare ogni rischio di destabilizzazione, si è perfezionata la seconda e la terza fase dell’Emergenza repubblicana, con la loro fusione. Ed eccone il rilancio, con la lettura sempre più “espansiva” dell’associazione di tipo mafioso: sia valorizzandone i fenomeni di ritenuto collateralismo (il c.d. concorso esterno), sia affermandone la transumanza in Continente (Mafia Capitale, e, in genere ‘Mafia al Nord’). Punto massimo di coaugulo, il Processo sulla c.d. Trattativa Stato-mafia. Coniugando l’una all’altra, il punto finale è, e non poteva che essere, la Corruzione Politica. Intesa ora, però, ben oltre l’area semantica dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, e fatta espandere a generale e onnicomprensiva qualità criminale della classe dirigente elettiva.

Tuttavia, c’erano (ci sono?) ancora due punti da rifinire. Primo Punto: le assoluzioni. Per dire, dei 4500 indagati in Tangentopoli, 3700 furono assolti. E oggi Incalza, e Penati e Why Not, Carnevale, Mannino, Mori, Canale, Musotto e tutti quegli altri che qui non nomino nemmeno.

Secondo problema: la classe politica elettiva è tendenzialmente criminale; ma viene votata. Almeno in parte, dunque, sono criminali anche gli elettori.

Sia pure nella loro crescente vanità per i singoli imputati, comunque distrutti, complessivamente considerate, le assoluzioni, alla lunga, nello spazio abbandonato del processo, hanno infatti sempre smentito la dimensione “politica”, cioè pervasiva, capillare e “costitutiva” di ogni Emergenza; ed hanno del pari sementito la conseguente necessità di poteri straordinari e di un “clima” straordinario. Ma, soprattutto, hanno smentito il valore di verità delle indagini preliminari, fonte esclusiva delle varie Emergenze. Bel problema.   

Avendo presnte questa palese contraddizione, fra una Nazione che si vuole marcia e i risultati, pur solo simbolici, dei processi in generale, possiamo ora intendere a pieno il cuore di quella intervista: la presunzione di colpevolezza, che si è preteso di “limitare” con l’aggiunta che riguarderebbe i “contesti chiusi”.

La presunzione di colpevolezza, così clamorosamente affermata, ha uno scopo preciso. Serve a proclamare che il giudizio è superfluo. Il Giudice è superfluo. Se il dibattimento condanna, bene; altrimenti, siamo in presenza di un criminale che l’ha fatta franca. Basta la Pubblica Accusa, perchè, con questo accorgimento sofistico, ha sempre ragione. Inoltre, se le assoluzioni, nei contesti “politici”, rimangono comunque sullo sfondo, l’Accusa basta a sè stessa: e si tratta di un’autosufficienza universale. Vale, cioè, sia per le questioni giuridico-penali, che per ogni altra valutazione. Davigo dice, con estrema coerenza, che la presunzione di innocenza “è un fatto interno al processo”. Dimissioni e non-candidature sono decise dal Pubblico Ministero.

Quanto agli elettori criminali e criminogeni, è presto detto. “L’evasione fiscale in Italia viene annualmente praticata da circa 10 milioni di soggetti”, ancora il Nostro. Quando la dimensione criminale di un comportamento si pretende riguardi, potenzialmente, non i singoli, l’unica dimensione per il cui lo strumento legislativo- reato si giustifica, ma “milioni di persone”, delle due l’una: o la Legge si è scollata dalla realtà, o siamo entrati in una dimensione più vicina ai Gulag che alle prigioni. Peraltro, nella scelta del reato-simbolo che definisce –e la qualificazione criminale definisce in modo inemendabile- non la classe politica (o non solo questa), ma le moltitudini che la sosterrebbero, traspare un’evidente opera di “sartoria politico-criminale”, svolta su ben precisi strati sociali. Gli autonomi e la piccola e media imprenditoria: i grandi, invece, si possono sempre avvalere del Modulo-Romiti: ignorato a Milano, l’ex a.d. della Fiat fu condannato, blandamente, a Torino; Modulo inaugurato proprio dal Pool Mani Pulite. “Se necessario, anche “contro la stessa volontà della maggioranza”. Tout se tien.

Tutto questo, però, non è Davigo. E’ l’Italia.

La Commissione Antimafia, sulla base di una ben precisa disposizione di legge, stila liste di “incandidabili”, potendo del tutto prescindere da ogni accertamento giurisdizionale. Il Presidente della Repubblica, labiale ed etereo, dice che “La corruzione dei politici è la più grave”. Il Governo è tutto contento perchè aumenta pene e prescrizione (un residuo di civiltà, per sottrarre la persona all’indefinito potere penale) per “La Corruzione” e lo “Scambio elettorale politico-mafioso”.

Le masse, in larga parte, e come sempre nei saturnali, applaudono. La Storia Edificante ha funzionato.

Nonostante gli scempi dell’Antimafia; nonostante i commerci disciplinari che, come, per es., nel caso dell’ex Procuratore Aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, puniscono un Pubblico Ministero mandandolo a fare il giudice; nonostante da Palermo, “terra di mafia” a targhe alterne, il figlio del dott. Tommaso Virga, ex CSM implicato nello scandalo insabbiato delle confische e sequestri antimafia (vicenda tutta di magistrati e che, da sola, mette in ombra ogni altro ipotetico scandalo dei “politici”), affermi: “te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro….io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno”.

E’ stata una lunga marcia. Davigo ha solo messo il punto.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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