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March 25, 2016
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La condanna di Karadzic e le “viltà cristiane” di Srebrenica

Una piccola storia svela le nostre ciance, belliche e pacifiste, di fronte al fondamentalismo islamico

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Karadzic_Srebrenica

L'ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadžic nella sua prima apparizione difronte all' International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia (ICTY).

Time: 7 mins read

Giovedì il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja ha condannato a 40 anni di reclusione Radovan Karadzic, ex medico psichiatra, ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia, per crimini di guerra e genocidio. 8000 bosniaco-musulmani maschi, dai 14 ai 78 anni, tra l’11 e il 12 luglio 1995, furono uccisi a uno a uno, e i loro cadaveri ammassati in fosse comuni. Quale massimo responsabile politico e militare, Karadzic si è preso la giusta pena, come si dice.

Questa sentenza cade al momento giusto. Proprio il genocidio di Srebrenica, volendo, costituisce infatti una tragica cartina di tornasole per le nostre velleità di reazione, di volontà, di superiorità morale; manifestate, piuttosto retoricamente, in questi giorni di rinnovati turbamenti bellici o parabellici. E, sia chiaro, le imbarazzanti verità di Srebrenica valgono più per chi la guerra non la vuole fare, che per chi dice invece di volerla. Naturalmente la distinzione vale per l’Occidente, perché gli altri, chiunque essi siano e comunque li si voglia denominare, mostrano idee più chiare. O, se volete, mostrano un delirio più chiaramente sostenuto della nostra opaca ragionevolezza.

Solo che le verità di Srebrenica non ci vengono dalla sentenza del Tribunale de L’Aja. Ci vengono da una storia laterale alle Cancellerie, alle Organizzazioni Internazionali, ai Princìpi, sugellati in tavole della legge di ogni età e lustro. Ci vengono dalla storia di un ragazzo, Hasan Nuhanovic, e della sua famiglia, madre, padre, e il fratello minore, 22 anni, “Braco”.

Hasan, nei giorni di Srebrenica è un ragazzo bosniaco di religione musulmana, 27 anni, già studente di Ingegneria e poi indotto dalla guerra a fare il traduttore. Lavora per i “caschi blu” dell’ONU, di circa 600 uomini il contingente. “Gli amici”, come lui li chiamava. Olandesi quasi tutti. A Srebrenica ci sono anche tre uomini dell’UNMO, United Nations Military Observer: il maggiore Joseph Kingory, Kenya, il Capitano Andre De Haan, Paesi Bassi e il Maggiore David Tetteh, Ghana.

Hasan pensava di essere utile alla soluzione del conflitto, lui con le sue parole e i suoi “codici” di traduzione. Ma, in realtà, voleva andarsene, anzi scappare da quell’inferno. Sognava persino di poter corrompere, risparmiando su ogni dollaro guadagnato, un qualche militare serbo, e spesso scrutava negli occhi di questo o di quello per captarne incoraggianti lampi di avidità. Anche se tutt’intorno all’enclave erano esecuzioni, fosse, spari. Perciò sperava e tremava.

La madre è un’eccellente cuoca, e più volte si industria per ospitare al meglio gli ospiti “buoni”, i “peace keepers”. Norvegia, Svezia, Gran Bretagna, Francia, Olanda, a casa di Hasan certe sere sembra il Palazzo di Vetro, e, una volta, la tavola sembrò imbandita per principi: bistecche, patate fritte, pollo, dolci, tutti i tipi di pita (focaccia di pane arabo): una col formaggio, un pasticcio di carne, una con gli spinaci. Mangiano tutti, gradiscono, sorridono. Fuori, intanto, continuano ad uccidere. E Hasa, che per quella cena aveva speso buona parte di uno stipendio, al mercato sprezzi spropositati, continua a tradurre e a sperare. A tavola, ai suoi nordici e garbati commensali, il padre chiede solo di raccontare al mondo quello che stava accadendo, perchè da tre anni loro sono chiusi a tutti e a tutto. Srebrenica è una enclave. E brinda, e anche lui spera.

Il giorno 11 luglio i Serbi entrano nella “zona protetta” di Srebrenica. Ma i “caschi blu” olandesi, presi da strategia negoziale, aiutano i serbi a separare la popolazione musulmana: uomini, da un lato, donne, da un altro. Dicono che la separazione agevolerà il negoziato.

Hasa, con tutta la sua famiglia è all’interno dell’ufficio del Dutchbat (il Comando generale olandese), nella vicina Potocarj, compresa nella “zona protetta”. Oltre una porta dell’ufficio c’è un capannone. Nel capannone, pieno di migliaia di rifugiati chiusi come in una scatola, non ci sono servizi, ovviamente, avviene tutto lì: il fetore è insopportabile. La notte prima i genitori di Hasa si erano stretti in quell’incubo, e il giorno dopo il figlio, sempre più perplesso dal generale immobilismo ma ancora convinto di potere in qualche modo far conto sui “buoni”, se li era portati in ufficio, la base, senza nemmeno chiedere. Ma si erano levati sguardi torvi, spazientiti, glaciali.

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I soldati olandesi della missione di “caschi blu” dell’ONU, guardano i civili musulmani di Screbrenica che vengono ammassati nel vicino villaggio di Potocari (Ph. Ap, 13 luglio 1995)

Un paio di settimane prima, il comandante UNMO olandese, De Haan, si era accorto di avere un’indomabile escrescenza alla schiena, e da Srebernica si era fulmineamente recato a Potocarj. Non era più tornato. Due giorni prima della strage, il maggiore Kingory e il maggiore Tetteh, rimasti a Srebrenica, avevano implorato il sindaco di lasciare andare anche loro a Potocarj. Il sindaco, abbastanza disgustato, aveva detto ad Hasan che poteva tradurre il suo consenso. Erano così impauriti che a Srebernica non mettevano il becco fuori all’ufficio. Cristiani, stavano in ginocchio a pregare e, per i loro rapporti, avevano chiesto a due sentinelle locali, due ragazzi serbi, se potevano contare per loro il numero delle esplosioni avvenute e delle granate in arrivo. Una volta ricongiunti al loro capo, a Potocarj, gli uomini UNMO rifiatano. Ma la guerra è sempre lì. Perciò, quando vedono che Hasan si è piazzato a forza nella “loro” base con la sua famiglia, sono fuori di sè.

Fuori i serbi hanno intanto hanno cominciato ad uccidere tutti gli uomini e i ragazzi, così ordinatamente divisi fra maschi e femmine. Si odono spari: nitidamente al momento dell’esplosione, dopo un po’ il sibilo improvvisamente si trasforma in un lieve tonfo sordo.

L’olandese e gli africani ora guardano con odio Hasan e la sua famiglia. Lì, al comando generale, ci sono varie centinaia di soldati olandesi, e, con la loro sicurezza, è cresciuta l’arroganza. Per tutto il giorno precedente, quello culminato nella notte infernale dentro il capannone, Hasa aveva implorato il comando olandese e gli “osservatori” ONU di aggregare la sua famiglia al piano di evacuazione. Senza guardarlo, dopo ore e ore passate a parlare senza che nessuno solo mostrasse di ascoltarlo, il maggiore Kingory, kenyano e cristiano, a un certo punto gli aveva detto che avevano troppi bagagli e che non c’era altro spazio.

Entra Christina Smith, infermiera tedesca e David O’Brian, medico australiano, entrambi di Medici Senza Frontiere. Rivolgendosi a De Haan, parlano delle esecuzioni che sono cominciate. La madre di Hasa sviene. Chiedono aiuto, pensando che un medico ed un’infermiera, almeno loro, sarebbero accorsi. Nessuno muove un dito, o volge la testa. La signora è a terra, un cencio, e quelli stessi che avevano sorriso compiaciuti alla sua tavola, fermi come statue.

Hasa è deciso a salvare la sua famiglia. Nel buio notturno attraversa il cortile della base e si precipita dal vicecomandante olandese, maggiore Frenken. I suoi baffi, non sa perché, gli infondono fiducia. Gli riferisce che l’infermiera aveva raccontato delle prime vittime dell’esecuzione, ma lui, brusco, gli risponde che non sa nulla e gli ordina di andarsene. Il ragazzo sa che la salvezza è nella base. Devono rimanere alla base.

Ma, la sera del giorno 12, alcuni sodati olandesi entrano nell’ufficio e dicono ad Hasa che la sua famiglia deve andarsene. Lui, traduttore ONU, può restare, ma la sua famiglia deve andarsene. I secondi incalzano, si apre la porta, di fronte a loro il cancello della base. Oltre, la morte. L’unica cosa che uno degli “osservatori” ONU sa dire è che, al momento in cui il fratello, “Braco”, varcherà il cancello, lui, soldato in divisa e gagliardetti, nientemeno, lo chiamerà per nome, perchè questo dovrebbe far capire ai serbi che l’ONU “ha un interesse speciale per lui”. Hasa, annichilito, capisce che non può protestare.

Mentre si avvicinano al cancello, tutti gli altri tengono lo sguardo basso, nessuno osa guardarli in faccia. Si fermano, esce dall’ufficio il maggiore Frenkel, quello coi baffi, e dice che il padre di Hasa può rimanere, perchè lui ha stilato una lista di “rappresentanti” che lo comprende; il signor Nuhanovic gli ricorda che ha moglie e un altro figlio; il maggiore gli risponde che può rimanere con Hasa o andare con gli altri: “è una sua scelta”. Allora il padre di Hasa gli si avvicina, gli sorride, gli stringe la mano, e, senza dire una parola, va dalla moglie e da “Braco”. Passano il cancello. Hasa non li vedrà più.

Come nulla fosse, Frenkel intima ad Hasa di raggiungere gli altri traduttori, al bar, dov’è il punto di raccolta. Al bar vede persone che non conosce, non sono traduttori. Chiede chi siano. Sono il figlio e un cugino di uno dello staff locale di Medici senza Frontiere; Christina, l’infermiera tedesca, si era messa d’accordo con De Haan, e li aveva fatti aggregare alla base.

Oltre quel cancello ne moriranno, uno a uno, circa trecento. Più o meno come alle Fosse Ardeatine. Uno degli addendi che si sommeranno sul capo di Karadzic.

Questa piccola storia, per le nostre velleità di riscatto di fronte alla piaga del fondamentalismo islamico, è come una goccia d’acqua per il mare. Lo contiene tutto. L’antologia di miserie potrebbe essere liquidata come episodica, fatto di singoli. E invece il governo olandese, nel 2006, ha addirittura insignito il suo contingente a Srebrenica di un’onoreficenza al valor militare. Senza mai revocarla, nonostante, nel Settembre 2013, la sua stessa Corte di Cassazione abbia riconosciuto le ragioni di Hasa e le colpe del Dutchbat, condannando lo Stato olandese al risarcimento dei danni. Non dovevano abbandonarli a morte sicura.

Si può fare una guerra con simili cuor di leone?

Ma si può contrabbandare per pace una simile viltà? In cui l’africano, debitamente civilizzato e cosmopolita, si allea al ricco olandese nella strenua difesa dell’indifferenza? E il cristiano col laico implorano il musulmano di lasciarsi abbandonare? Dove il soldato-scribacchino non vuole nemmeno contare le bombe che ode? E, rianimata la protervia con la fuga, dice che il suo bagaglio vale almeno tre vite? E la patria, civile, libera e tollerante per questo li chiamerà eroi? Dove medici e infermieri (senza frontiere, per carità, come i giochi) sospendono la loro coscienza sanitaria per negoziare, per selezionare, per escludere dalla loro sovrana specialità anche il tocco di una carezza a chi sta male e chiede il loro aiuto?

No, non si può.

  

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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